sabato 25 dicembre 2021

Nostalgia di Giulio Alfredo Maccacaro, nostalgia di Giacomo Mancini

 Giulio A. Maccacaro

"E in Italia?"

Prefazione a Henning Sjoström e Robert Nilsson, Il talidomide e il potere dell'industria farmaceutica, Feltrinelli, 1973.


(...) Nell'autunno 1960, quando A. Sabin veniva all'Istituto Superiore di Sanità ed il Ministro della Sanità andava al Congresso di Pediatria, la produzione di vaccino antipoliomielitico era riservata a due industrie farmaceutiche: l'ISI (Istituto Sieroterapico Italiano)[xxii] di Napoli e l'ISM (Istituto Sieroterapico Milanese) di Milano.[xxiii] La terza industria italiana specializzata nel settore “sieri e vaccini” è la SCLAVO (Istituto Sieroterapico Vaccinogeno Toscano) di Siena che, a quel tempo, si preparava a sua volta a produrre vaccino antipolio, ma precisamente del tipo Sabin.

Invece l'ISI e l'ISM producevano già, e soltanto, vaccino del tipo Salk: per esso avevano attrezzato gli impianti, di esso venivano riempiendo i magazzini. La produzione italiana era duopolistica ed il mercato era praticamente monopolistico dacché un acquirente soverchiava largamente gli altri: proprio il Ministero della Sanità. È questo Ministero che, quando ebbe notizia che la SCLAVO aveva preparato del vaccino orale tipo Sabin, mandò un medico provinciale a sigillarne i flaconi per impedirne la distribuzione. Intanto continuavano la produzione e la vendita, l'ammortamento degli impianti, l'esaurimento delle scorte e l'accumulazione dei profitti dell'lSI e dell'lSM. E così che si arriva al 1964 quando un altro Ministro della Sanità [xv], convinto anche lui ma fortunatamente in un altro senso, che il suo dicastero “non può fare dei bambini italiani cavie da esperimento”, diede il via alla distribuzione del vaccino orale attenuato. Da allora la poliomielite è andata praticamente scomparendo: 20 casi in tutta Italia durante i primi nove mesi del 1971!

Si può, dunque, concludere che la grande maggioranza dei 9.509 casi di poliomielite verificatisi in Italia nel triennio 1961-1963 sarebbero potuti essere risparmiati – per capire cosa questo significhi bisogna fare lo sforzo di pensarli uno a uno, famiglia per famiglia, bambino per bambino, bara per bara, paralisi per paralisi – se un certo vaccino fosse stato tempestivamente sostituito da un altro. 

Ma il godimento di questo beneficio è stato posticipato subordinandolo a precisi calcoli di ammortamento...  alle esigenze di profitto dell'industria che fino allora aveva prodotto il vaccino Salk corrispose un totale asservimento degli organi statali e del loro massimo responsabile: il Ministro della Sanità.[xxiv] 

[xxiii] Sul mercato italiano erano anche presenti 7 vaccini antipolio tipo Salk prodotti da 5 ditte americane, una canadese ed una svizzera.

[xxiv] Collettivo dell’Istituto Superiore di Sanità, op. cit., p. 36.

[xv] Il Ministero della Sanità fu retto da: Camillo Giordana (democristiano) dal 16 febbraio 1959 al 20 febbraio 1962, Angelo Raffaele Jervolino (democristiano) dal 21 febbraio 1962 al 4 dicembre 1963, Giacomo Mancini (socialista) dal 5  dicembre 1963 al 21 luglio 1964.


Si veda anche: Pietro Mancini, ... Mi pare si chiamasse Mancini..., Luigi Pellegrini Editore, 2016

 


| Giulio Alfredo Maccacaro (Codogno 8 gennaio 1924 – Milano, 15 gennaio 1977) |

"La verità è che a Codogno, grazie a una straordinaria e anonima dottoressa con qualità cliniche di altissimo livello, l'Italia ha scoperto l'epidemia. Ha avuto il tempo per reagire e può tentare di limitarne le conseguenze".

Cosa è successo a Codogno?
(risponde Stefano Paglia, 49 anni,  primario dei pronto soccorso di Codogno e di Lodi)
"Il cosiddetto "paziente uno" all'inizio aveva i sintomi classici di un'influenza e per due volte ha negato relazioni sospette con la Cina. Non rispondeva alle terapie ed essendo giovane era stato invitato invano a rimanere in ospedale sotto osservazione. Si è ripresentato il 19 notte, la polmonite si era aggravata, nessun farmaco funzionava. Nel primo pomeriggio di giovedì 20, dopo il trasferimento dalla medicina alle terapie intensive, si è accesa la lampadina all'anestesista che ha salvato tutti dalla catastrofe". 

Quanto tempo è passato prima che scattassero le misure anti contagio? "La mia collega, forzando il protocollo, ha fatto fare il tampone. Prima ancora di avere conferme, personale e reparti sono stati messi in sicurezza".
§


Giulio Alfredo Maccacaro è stato medico, biologo e biometrista, cioè uno scienziato che si è occupato di metodi della statistica applicata alla medicina e alle ricerca delle cause soprattutto ambientali e lavorative delle malattie.
Nasce a Codogno l'8 gennaio 1924, nel 1942 si iscrive all'Università di Pavia e studente, partecipa alla Resistenza nelle forze partigiane dell'Oltrepò pavese, con la brigata Barni; nel 1945 entra al Collegio Ghislieri di Pavia.
Si laurea, nel 1948 a Pavia, in Medicina e Chirurgia e diviene ricercatore nella stessa Università.
Negli anni 1949-50 si trasferisce presso l'Università di Cambridge, nel 1951 ritorna in Italia come assistente presso l'Istituto di Igiene Università di Pavia e all'Istituto di Patologia generale Università degli studi di Milano.
Dal 1954 al 1963 è ricercatore presso l'istituto di Microbiologia, Facoltà di Medicina dell'università di Milano. Nel 1959 lavora come ricercatore presso il Department of Chemistry del Chelsea College of Science and Tecnology di Londra, come relatore del corso "Storage and transfer of information in bacteria" e l'anno successivo alla Microbial Genetics Research Unit del Medical Research Council di Londra.
Negli anni 1961-1962 è relatore del corso "Anatomy and function in microorganism" della Gordon Conference di Meridien, Stati Uniti e docente ricercatore presso l'Università degli studi di Modena; consegue libera docenza in Statistica Sanitaria e Microbiologia.
Nel 1964-65 a seguito di concorso è professore di Microbiologia presso la Facoltà di Scienze dell'Università degli studi di Sassari e nel 1966 è vincitore di un secondo concorso e viene chiamato a Milano alla Cattedra di Statistica Medica e Biometria della Facoltà di Medicina e Chirurgia. Sotto la sua direzione - tra gli altri - si laurea lo psicanalista Elvio Fachinelli. In ultimo, è nominato direttore dell'istituto e del Centro Zambon per le applicazioni biomediche del calcolo elettronico, da lui voluti. I suoi interessi principali riguardarono:
    * La statistica sanitaria e le ricerche di statistica clinica. con contributi alla biometria, studio delle diagnosi automatiche, organizzazione e recupero dei dati clinici. Disegni ed analisi delle sperimentazioni con i farmaci; controlli di qualità dei dati clinici di laboratorio e programmazione degli screenigs multifasici di massa orientati alla medicina preventiva.
    * Biometria tassonomica
    * Biometria farmacologica
    * Biometria genetica
    * Microbiologia, nelle sue implicazioni sanitarie e preventive.

G.A.Maccacaro fu uno scienziato che visse in modo completo la sua professione di studioso e ricercatore e il suo impegno sociale. Fu sempre dalla parte dei lavoratori e degli studenti ai quali profuse tempo ed energie; visse in modo onesto la sua professione di docente, senza ottenerne facili privilegi. (Sapere 1976, 1977)
Diresse le collane:
    * Salute e società Etas/Kompass (1970)
    * Medicina e potere (13 volumi) Feltrinelli (1973)
Diresse la rivista:
    * Sapere (1974) (nuova serie, con Giovanni Cesareo)
Fondò la rivista:
    * Epidemiologia e prevenzione (1976) della quale fu anche direttore.
§
Discorso pronunciato il 2 febbraio 1975 presso la Fondazione Limberti, in Codogno, durante la cerimonia per la consegna del premio “Codognese benemerito”, Codogno 1977 (ed. f.c. a cura della Associazione Pro Loco Codogno); rist. in Per una medicina..., op. cit., pp. 483-491.



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Giorgio Bert, Giulio Maccacaro e la scommessa sul cambiamento


Una grande figura del territorio lodigiano
l'appello di Viviana Stroher

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Epidemiol Prev 2019; 43 (5-6), settembre-dicembre

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Nostalgia di Mancini
Porti chiusi, politici ondivaghi e codardi, starlette leghiste, amministratori scunchiudenti,  movimenti narcifascisti, effimeri comitatoni di scienziatoni ... ad un certo momento irrompe un ministro socialista che si è rotto le palle di picciriddri muorti o sulle sedie a rotelle, manda affanculo i politici e i pediatri sul libro-paga delle farmaceutiche e con quelli i sostenitori di Jonas Salk e nel giro di pochi mesi orchestra “la più grande campagna sanitaria mai condotta in Italia”. Oltretutto il "metodo orale Sabin” - che utilizza virus attenuati - costava di meno e non aveva bisogno di essere inoculato. Si presenta come due gocce su uno zuccherino, è molto più efficace e i picciriddri sono contenti. Non fu cosa semplice. Quando i Ministri della Sanità, precursori di Giacomo, (non facciamo nomi: Camillo Giordana e Angelo Raffaele Jervolino) ebbero notizia che la SCLAVO stava preparando il vaccino orale tipo Sabin, mandarono un medico provinciale a sigillarne i flaconi per impedirne la distribuzione. Intanto continuavano la produzione e la vendita, l'ammortamento degli impianti, l'esaurimento delle scorte e l'accumulazione dei profitti dell'lSI e dell'lSM, il duopolio del Salk. Si osservi che queste notizie non le ho trovate su Dagospia ma su uno studio di Giulio Maccacaro, il massimo epidemiologo italiano (purtroppo deceduto nel 1977: ironia volle che fosse di Codogno). Forse ancora non c'era bisogno di mascherine (anche se per il contagio oro-fecale sarebbero state utilissime), ma si fece in modo che almeno i cucchiaini fossero sterili e che i vaccini fossero ben conservati. Morale della favola, non so quante migliaia di frigoriferi il ministro Mancini fece acquistare.  Pochi giorni fa Robert Gallo, fra gli scopritori, negli anni ’80, del virus dell’Aids e del primo test per diagnosticare l’Hiv, da Floris ha raccontato che «Con un mio collega virologo russo mi sto battendo per usare il vaccino della poliomielite - ha aggiunto - che si prende per via orale ed è sicuro (insomma si stava riferendo al Sabin) e che sospettiamo possa rallentare il coronavirus».  «Potrebbe abbassare la curva dell'epidemia finché non troveremo un vaccino specifico».  Chissà, le celle frigorifere di Mancini potrebbero essere ancora utili.

venerdì 24 dicembre 2021

mercoledì 22 dicembre 2021

Distanziamento, amuchina, mascherina













Η Ξενητειά του Έρωτα
(L'amore emigrato)



Совместное выступление с схиархимандритом Серафимом (Бит-Хариби)

Partenza Amara
Coro A.N.A. di Milano
Album
I Canti Della Memoria


















venerdì 10 dicembre 2021

Con o senza


 

trait d'union

locuzione
  1. 1.
    Lineetta, trattino tipografico.
  2. 2.
    FIG.
    Quanto, persona o cosa, serve come elemento di connessione o collegamento fra più persone o cose; tramite.

detto senza riferimento alla cannabis


la calpestabilità dell'erba

perché le cose stanno in piedi

Un'asta lunga non si "rompe" quando si ingobba, ma si limita a piegarsi elasticamente in modo da schivare il carico. Se durante l'ingobbamento non si è superato il "limite elastico" del materiale, quando si rimuove il carico l'asta non farà altro che raddrizzarsi e riprendere la forma iniziale, senza che l'esperienza l'abbia minimamente turbata. Questa caratteristica può essere spesso un elemento positivo, poiché in questo modo è possibile progettare strutture "infrangibili". In termini più generali, è il modo in cui funzionano i tappeti e gli zerbini. Come è prevedibile, la natura usa questo principio in lungo e in largo, specialmente per piante basse come l'erba che vengono inevitabilmente calpestate. Ecco perché si può camminare su un prato senza danneggiarlo."

James Edward Gordon, Strutture, ovvero perché le cose stanno in piedi


Non luogo a procedere 

E' di Benjamin la distinzione tra l'ottica con cui una città è vista da uno straniero e da un nativo del luogo: mentre lo straniero ha una visione prevalentemente spaziale, il nativo ne ha una visione soprattutto temporale. Le mappe e ancor più le osservazioni ad esse connesse s'inscrivono in una topografia culturale, "presuppongono un viaggio della mente e un'idea di spazio che, di epoca in epoca, accrescono le possibilità spirituali non solo di chi guarda l'oggetto città, ma dell'oggetto guardato; non solo di chi pensa, ma dell'oggetto pensato" (Maria Corti).

Mi viene poi in soccorso Cesare Pavese, per il quale il paese, il pavese, non è un'entità topografica ma topologica: il luogo in quanto mitico. Il luogo è una funzione logica da segnare con la A maiuscola, quella dell'altro. "Tale il mio paese, tale io". Ogni paese è il paese che mi pare e il paese che mi appare è mobile, straniante, sempre diverso. Ripensandolo posso turbarlo, posso modificarlo. Allo stesso modo di come posso modificare il passato (è l'ipotesi freudiana). Le strade di casa sono sempre diverse: per questo non si danno radici. Il paese non è un luogo fondante, l'infanzia non è un tempo fondante, ma semplicemente il tempo e il luogo che sono stati più alterati, modificati, interpretati. Ecco perché si tratta di questioni così importanti per il soggetto.





La macchina-cinema ha fatto da apripista delineandone i passi necessari: soggetto, trattamento, sceneggiatura, storyboard. Ma vuoi mettere imparare facendo, assistito da un regista esperto, da un mastro artigiano?






Dovremo imparare a riconoscere che le cose stesse sono i luoghi e non solo appartengono a un luogo. Un enunciato heideggeriano che ricordo grazie alla intermediazione amichevole di Christian Norberg-Schulz.



Appunti in attesa di discorsi compiuti





Pensiamo a Giacinto come a una topologia, perennemente "sulla soglia", del supermarket come della chiesa, che presenziava e ti accompagnava, forte di qualche entratura nell'alto dei cieli (Sant'Antonio, dell'Orto e non Sant'Antonio Abate o di Padova) l'unico degno di nominazione e di gloria.
















giovedì 9 dicembre 2021

La vecchiaia è 'na carogna

 


 

figghiòla, 16 anni, 26 vaccinazioni già effettuate molte delle quali obbligate, qualcuna consigliata: ad es. le 2 pfeizer anticovid, che potrebbero essere molto presto obbligatorie (dipende dagli scenari epidemiologici e dalla situazione scolastica).









Per una puntuale analisi critica delle paranoie agambeniane Cfr.



Ara squagliata dà nive

Non so quale forma patologica di narcisimo conduce il prof. Agamben a 
negare l'esistenza della pandemia. Sul punto occorrerebbe chiedere a 
Gino Strada, Giulio A. Maccacaro, a Giacomo Mancini (ministro della 
sanità "antipolio" negli anni '60) e magari pure a Jean-Luc Nancy. 
Purtroppo sono morti e il sottoscritto non ha sufficente stoffa e levatura 
per mandare affanculo il grande professore del quale ho letto molti 
suoi libri. 
Da "Stanze" a "Idea della prosa" e a "Che cos'è un dispositivo", 
in un crescendo di pochezza e di miserabilia. 
Segno evidente che ara squagliata dà nive si vidàno i str****




sabato 23 ottobre 2021

La qualità dell'erba

 

LA QUALITA'  DELL' ERBA

detto senza riferimento alla cannabis

 

 "Il carico d'ingobbamento di un'asta o di un pannello di una data lunghezza dipende esclusivamente da I (o momento d'inerzia della sezione trasversale) e dal modulo di Young o rigidità del materiale di cui sono fatti. Un'asta lunga non si "rompe" quando si ingobba, ma si limita a piegarsi elasticamente in modo da schivare il carico. Se durante l'ingobbamento non si è superato il "limite elastico" del materiale, quando si rimuove il carico l'asta non farà altro che raddrizzarsi e riprendere la forma iniziale, senza che l'esperienza l'abbia minimamente turbata. Questa caratteristica può essere spesso un elemento positivo, poiché in questo modo è possibile progettare strutture "infrangibili". In termini più generali, è il modo in cui funzionano i tappeti e gli zerbini. Come è prevedibile, la natura usa questo principio in lungo e in largo, specialmente per piante basse come l'erba che vengono inevitabilmente calpestate. Ecco perché si può camminare su un prato senza danneggiarlo."

James Edward Gordon, Strutture, ovvero perché le cose stanno in piedi

 



 

Ricordo molto bene un negozio, in Corso Mazzini, chiuso ormai da molti anni. Un negozio piccolo, grigio, insignificante, ma il cui nome è incancellabile: "La casa della gomma". Luogo di desideri infantili, in anni in cui la plastica era un materiale nuovo, colorato, appetibile. La gomma e la plastica avevano un buon odore e significavano i canotti, le pinne e le maschere da sub, i palloni: "la casa della gomma" era la tappa agognata prima delle vacanze estive.

 Irrilevante il fatto che la gomma avesse una casa e che questa ne disponesse in tutte le varietà e multiformità, la fascinazione di un nome del genere penso debba essere ricondotta al potere dell'endiadi, alla posizione di vicinanza, alla suggerita consustanzialità tra casa e gomma. Passando da bambino per quel negozio ho sempre pensato a una casa morbida, fatta di gomma, oppure a una gomma in grado di cancellare le case. Dico quelle reali, non quelle che esistono nel disegno. I bambini si sa, con la scusa di non comprendere bene il confine tra realtà e fantasia, mettono in scena volentieri desideri distruttivi. Non a caso un bambino cresciutello come Louis Aragòn, a proposito di Anatole France, diceva "di sognare spesso una gomma per cancellare l'immondezza umana". Una forma di nihilismo e di radicalismo serpeggiante in molta urbanistica in attesa dell'apocalittica discesa della Grande Gomma Divina, ispirata dalla parola di Meister Eckardt per cui "'solo la mano che cancella può scrivere il vero".

Ma le cose (le case) possono essere cancellate? Difficile. Una volta apparse, anche solo per un attimo, anche se mero prodotto di fantasia, anche semplicemente nominate o sussurrate le cose esistono e se sono belle è per l'eternità. Sono dalla parte dell'erba e dunque in-frangibili.

Incancellabile per esempio il ruolo ricoperto per più di trent'anni dalle vetrine di Scola (all'angolo tra Corso Mazzini e Viale Trieste) e della Galleria Fiorentina. E più avanti, dopo il bar Gatto quello del Paradiso dei piccoli. In una città senza musei, senza gallerie d'arte, senza iniziativa pubblica e privata, e senza e senza e senza, quelle vetrine hanno avuto un'importantissima funzione vicariante di educazione estetica per più di una generazione di cosentini.

La prima inscenando con sapiente gusto scenografico le opere dei padri dell'attuale stilismo italiano e francese.

La seconda, una vera bottega d'oriente e nello stesso tempo un laboratorio di design, intrecciando un discorso a puntate sul cristallo e la porcellana, tra cineserie japaneserie e cultura del moderno.

Ma si trattava pur sempre di due vetrine di negozi. Una posizione insegnante troppo sottile per i tronfi miopi e locali archi-scrittori (s'intenda: politici, tecnici e costruttori).

Quando negli ultimi anni ci fu una presa di coscienza imprenditoriale e cooperativa e ad es. si è costituita l'associazione "Corsomazzini", l'entusiasmo e il discorso culturale in partenza erano forti ma pure privi di interlocutori, tra gli amministratori comunali, in grado di orientare e incentivarne l'operato.

Qualsiasi politico con un minimo d'intelligenza avrebbe potuto far propria l'headline "lo stile in una via" inducendo quell'associazione a contribuire attivamente a un piano colore e di omogeneizzazione delle insegne, alla creazione di una rete di servizi per il cittadino (prima ancora che per il cliente).

Così l'entusiasmo iniziale si è pian piano affievolito, fino agli esiti recenti dell'inevitabile spostamento d'interessi su Rende.

Immagino che la statua di Giugno (icona preminente nel marchio di quell'associazione) - per protesta - scenda da sopra la fontana e se ne vada. Ma non a Nord, a fare shopping. Che prenda la via della città vecchia. Magari per trasferirsi a Piazza Valdesi o a Piazza della Prefettura, per tener compagnia a Bernardino Telesio.

 

 

E' proprio la mancanza di elasticità nelle case, nelle cose e nelle persone, che si registra quotidianamente. E che duole. Mentre persino il cemento armato ne assicura un minimo non trascurabile, e mentre a quest'ultimo ci siamo ormai rassegnati lasciando il calore del legno al campo del sogno, è la mancanza di questa qualità dolce negli umani che si presenta con la forza dell'impatto.

E' per questo reiterato incidente mattutino che si è costretti - la sera - all'amara constatazione della prevalenza del cretino.

Poiché realisticamente non è possibile passare il tempo a rimpiangere la qualità dell'erba o ad attendere l'avvento degli intelligentoni senza crampi mentali, si tratta di provocare a qualsiasi livello scelte leggere e transitorie oppure di volare alto, insomma di correre il rischio del colossale.

 (Detto tra parentesi: Piazza Cappello, la G.I.L -vale a dire- l'ex cinema Italia, lungo Busento, Via Milelli, a Cosenza come in altre città, la vituperata architettura fascista resta l'ultima architettura accettabile e soprattutto riconoscibile.)

 

Elasticità e monumentalità possono andar d'accordo. Come dimostra quell'opera di land art, quel gesto minimale e grandioso, antifunzionale e disumano, che è il progetto Gregotti dell'università. Ed è un peccato che non si sia più realizzato il grattacielo rendese, chè quella abbisognava di una perpendicolare, perché la mappa mentale dei cittadini ha bisogno di punti di riferimento, di significanti architettonici forti.

Si veda al proposito la bellissima pagina di Osvaldo Soriano sull'obelisco di Buenos Aires ("Il manifesto", Il testimone immutabile, 5 Settembre 1987):

"...è sotto l'obelisco che ci troviamo ed è grazie ad esso che ci orientiamo in questa città gigantesca e degradata; (...) non abbiamo nient'altro che ci rappresenti meglio".

Nella curiosa metafora antropomorfa di Soriano, l'obelisco rappresenta "il naso" della città. (Sempre a proposito dell'utilità psichica e topologica del monumentale, si veda pure "la fame di Erettèo" che Elvio Fachinelli riportava dai sogni di suoi analizzandi, in una conversazione con "Casabella").

 Aveva fatto ben sperare il giorno in cui erano planati quei cinque oggetti non identificati, quelle cinque cupole dal geodetico omaggio a Buckminster Fuller. Tese a rafforzare l'immagine di un polo sportivo e moderno. Andando a affiancare quella piscina a forma di tartaruga. Un'idea genetica di lentezza che ha tristemente influenzato il destino dell'opera. Senonché anche le cupole, senza un minimo di arredo urbano e avvilite dall'utilizzazione tutta strapaesana e fieristica, invece di rappresentare uno spazio elastico e polifunzionale (poteva ad esempio essere ritrovo giovanile e pure un ottimo contenitore d'arte contemporanea), ha finito col tingersi di quello squallore tipico dei vecchi tendoni da circo di periferia. Sarà il caso di ricordare che proprio da quelle parti si ergeva un tempo, con discreto umorismo, la sgangherata tenda di Giangurgolo.

Occorre dire pure che per soddisfare la fame di Erettèo, di cose notevoli atte ad orientare, insomma di falli la cui significazione faccia da punto di riferimento per la mappa diciamo mentale di quel povero sbandato che è l'abitessere, quando quel monumentale si ritrova per le mani della grandeur politica e di incauti progettanti, allora è la fine della città (e della civiltà). Non è una visione apocalittica, è già nelle cose, è già successo. In altre parole, il progetto architettonico forte c'ha da essere, ma solo come lapsus d'autore: il resto deve essere necessariamente recupero e riuso degli innumerevoli "vuoti a perdere" (siamo proprio sicuri che parte del vecchio complesso ferroviario cosentino non potesse essere recuperato con altra destinazione d'uso?).

 

Monumentalità e leggerezza, significanti architettonici forti e strategie di recupero, possono andar d'accordo perché entrambi legate all'intelligenza delle soluzioni. Tutto il resto - a Cosenza - non può essere altro che edilizia.

 

(In memoria di Eugenio Anselmo)

La casa della gomma,

Il Quotidiano della Calabria, 19 Settembre 2004

 

 

 

 

Non luogo a procedere

 

La casa della gomma,

Il Quotidiano della Calabria, 19 Settembre 2004



Domenica scorsa, stesso spazio stesso giornale, ho effettuato alcune scansioni temporali di ciò che in città (ma occorrerebbe estendere l’analisi a livello regionale) ha dato un contributo all’educazione estetica (se non proprio artistica) dei cittadini. Ho citato pure alcuni dei gap e dei punti di debolezza che ci rendono sussiegosi quando ci si propone in pompa magna una nuova acquisizione griffata e decontestualizzata. Erano scansioni veloci, fatte con lo scanner della mia memoria traballante, che esigenze di spazio del giornale hanno limitato alla sola città di Cosenza. L’amico Sicoli ha forse supposto una mia contrarietà di fondo alla donazione Bilotti o una possibilità di strumentalizzazione in tal senso del mio intervento. Non è così e non avrei certo preso la parola per questo. Come ironicamente ricorda mi occupo di randagi e testi pubblicitari (pochissimi i secondi), mentre con l’arte mantengo un rapporto amichevole, da dilettante. Volevo solo contestualizzare e probabilmente complicare il dibattito fin qui sviluppatosi. L’intento era quello di esplorare, in un discorso dichiaratamente antipedagogico, gli elementi di una educazione “preterintenzionale”, ciò che ha “punto”, gli stimoli e le scintille nei confronti dell’arte per più generazioni di calabresi: nomi, cose, luoghi, eventi.

 

I miei punti di riferimento, da Sud a Nord, sono Piazza della Prefettura (poco importa se la prefettura è oggi altrove e la piazza si chiama in altro modo), Palazzo degli Uffici (uno slargo con una scalinata che da trent'anni facilita la sosta e che nel corso degli anni ha cambiato un paio di denominazioni), Corso Mazzini, Piazza Kennedy (quella del bar Manna, con o senza colombe), Piazza Fera. Nessuna emergenza architettonica particolare, solo nomi (è il caso di Fera e Kennedy), panchine e vetrine: quella della libreria Cianflone, più avanti negli anni quella della libreria Il Castello, alcuni negozi di moda e di oggettistica. Non c'è mai stata architettura riconoscibile, forse basterebbe dire architettura punto e basta, salvo quella bella e fascista della gioventù littoria, dall'area del lungo Busento fino a Piazza Cappello, che però non rientrava nei miei spazi di percorrenza.

 

Ricordo molto bene un negozio, in Corso Mazzini, chiuso ormai da molti anni. Un negozio piccolo, grigio, insignificante, ma il cui nome è incancellabile: "La casa della gomma". Luogo di desideri infantili, in anni in cui la plastica era un materiale nuovo, colorato, appetibile. La gomma e la plastica avevano un buon odore e significavano i canotti, le pinne e le maschere da sub, i palloni: "la casa della gomma" era la tappa agognata prima delle vacanze estive.

Irrilevante il fatto che la gomma (alla lettera) avesse una casa e che questa ne disponesse in tutte le varietà e multiformità, la fascinazione di un nome del genere penso debba essere ricondotta al potere dell'endiadi, alla posizione di vicinanza, alla suggerita consustanzialità tra casa e gomma. Passando da bambino per quel negozio ho sempre pensato a una casa morbida, fatta di gomma, oppure a una gomma in grado di cancellare le case. Dico quelle reali, non quelle che esistono nel disegno. I bambini si sa, con la scusa di non comprendere bene il confine tra realtà e fantasia, mettono in scena volentieri desideri distruttivi. Non a caso un bambino cresciutello come Louis Aragòn, a proposito di Anatole France, diceva "di sognare spesso una gomma per cancellare l'immondezza umana". Una forma di nihilismo e di radicalismo serpeggiante in molta urbanistica in attesa dell'apocalittica discesa della Grande Gomma Divina, ispirata dalla parola di Meister Eckardt per cui "'solo la mano che cancella può scrivere il vero".

 

Ma le cose (le case) possono essere cancellate? Difficile. Una volta apparse, anche solo per un attimo, anche se mero prodotto di fantasia, anche semplicemente nominate o sussurate le cose esistono e se sono belle è per l'eternità. Sono dalla parte dell'erba e dunque in-frangibili. La libreria Cianflone e poi Il Castello, La casa della gomma, insieme alle vetrine di Mazzocca, Galleria Fiorentina, Forgione, Ultimoda Scola, sono stati i miei punti di riferimento, la mia bussola, il mio ancoramento alla città.

 

Anni fa mi capitò un'esperienza di gruppo molto interessante con dei docenti di scuola superiore. Era loro richiesto - si trattava di un esercizio di mapping - di spiegare a un ipotetico amico, in modo chiaro e sintetico e avvelendosi di uno schizzo, come raggiungere la propria casa. Verificammo subito come il riferimento costante era alle uscite autostradali e alle pompe di benzina e che le forme salienti erano una ruspa dimenticata o un'autofficina Fiat certo non monumentale nel fenotipo architettonico ma nell'essere “l'unica autorizzata”. Una volta ammutolite le chiese, sono quest'ultime i testimoni colorati, gli unici significanti architettonici della modernità di un certo rilievo. In altri casi la descrizione è comunque automobilistica: linee di fuga, ponti, alberi, il ricordo di qualche palma, descritti da dietro un finestrino in corsa. Questi erano i disegni, i mental maps.

 Un altro esercizio richiedeva la descrizione del proprio centro storico e quelle si rivelarono invece tutte di ordine sinestesico e poetico.

Per Rosanna Meduri il profumo dei fiori di Reggio Calabria si mischia a quello della salsedine e allo “struscio” dei ragazzi.

Rosanna Malaspina ricorda una ringhiera in ferro battuto. Bella e arrugginita.

Per Elio Delle Fave, Reggio è tutta in un'atmosfera generata dai tavolini dei caffè. Che non ci sono più.

Per Rosaria Puntillo è un problema di avvicinamento. Occorre superare l'ostacolo del degrado delle periferie. Ma il cuore possiede un'antica dignità e pure un emblema: i damaschi sventolanti dai balconi in onore della Vergine.

Donatella D'Ambra ricorda, ai piedi del castello, un venditore di cocomeri con un'insegna a fumetti.

Per Nunzia Ottomani Reggio coincide con la piazza del duomo. Più precisamente consiste nell'impressione di un abbraccio: quello dello spazio col tempo.

Giovanni Sgammotta ricorda Vallefiorita. Un paese piccolo piccolo dal nome programmatico. Eccone la cifra: un nome che cattura, i vecchi che raccontano, i giovani che sperano.

Caterina Nolesci nelle viuzze di Catanzaro si sente a proprio agio, del tutto: in famiglia.

Per Chiara Suraci è ancora vivo il ricordo di certi davanzali col basilico coltivato nelle scatole, nelle “buatte” dei pelati.

Silvana Castagna, incantata da una madonna dipinta da chissà chi, passava accanto a una bettola dall'acre odore di vino. Ancora oggi ripassando da quelle parti, anche se la bettola non c'è più, risente lo stesso odore. Impregnazione del luogo fisico o del suo privato luogo mentale, chissà?

Per Annunziata Rubino i suoi ricordi sono un innesto di ricordi altrui, quelli di sua nonna. Se dovesse disegnarli il confine sarebbe labile, permeabile, una barriera molle. Ricorda una chiesa di Stefanaconi che ha resistito ai vari terremoti ma non all'ottusità di un sindaco e che viene abbattuta. Assieme ai suoi giochi preferiti.

Per Luigia Stricagnolo, Crotone è una buccia di mandarino bruciata nel braciere. Oppure è un litigio la cui durata è marcata dalla presenza di una scopa fuori dell'uscio.

A Nicotera prevale l'olfatto. Per Agostino Mercuri, Nicotera e più in generale la città vecchia è tutta nella sapienza del fiuto. Mentre gli uomini delle città anonime fanno confusione, fraintendono persino gli odori. L'unico fiuto che gli resta, a volte, è quello degli affari.

Per Francesco Pagnotta dalle case basse promana l'odore della muffa-

Per Carmela Rodolico è - oggi- fetore di aggiughe salate, di scatole vuote, di frutta marcia.

A Cosenza Anna Salfi ripercorrerebbe volentieri - e lo fa mentalmente - i pochi metri “molto diversi”di un tragitto: quello che a Cosenza collega piazza dei Valdesi alla piazzetta dei pesci.

Per Marilena De Bonis, Cosenza vecchia è un cartello che prescrive "vetture al passo". Una quiete turbata dalle onduline di plastica.

Rosaria Vecchio ricorda invece i vecchi curvi sulla soglia e l'odore dello zucchero filato alla fiera di S.Giuseppe.

Ada Tucci s'interroga sulla vocazione di grandezza, nella dimensione fisica e nella portata simbolica. Saprà ritrovarla, sarà con o senza tesoro?

Anna Giannicola continua a vivere questa parte della città. Intrattiene con essa una relazione di reciprocità: è l'unica parte di città riconoscibile e dotata di identità, ed è - Anna - riconosciuta da essa, dalla gente che la abita.

Maria Errico inscena un dubbio: sarà o non sarà la sua città. Odore di muffa e di bagnato, gatti grossi troppo grassi per la miseria dei bassi. Scale, tante scale, bagnate di pioggia: come faranno le donne col pancione a non scivolare?

Teresa Coscarelli ricorda il peso dei vocabolari per Corso Telesio e la storia d'amore dei nonni vissuta dalla finestra delle loro case. Una di fronte all'altra.

Marialuigia Campolongo ricorda Permesso, Popoì e Biki-biki. I personaggi della sua città, vissuta a piedi, senza rumori eppure così sonora. Una città che può stare benissimo dentro un foglio protocollo o in un quaderno dell'antica cartoleria Scornaienchi.

 Su tanta intelligenza poetica mi asterrò da qualsiasi commento.

E' di Benjamin la distinzione tra l'ottica con cui una città è vista da uno straniero e da un nativo del luogo: mentre lo straniero ha una visione prevalentemente spaziale, il nativo ne ha una visione soprattutto temporale. Le mappe e ancor più le osservazioni ad esse connesse s'inscrivono in una topografia culturale, "presuppongono un viaggio della mente e un'idea di spazio che, di epoca in epoca, accrescono le possibilità spirituali non solo di chi guarda l'oggetto città, ma dell'oggetto guardato; non solo di chi pensa, ma dell'oggetto pensato" (Maria Corti).

Mi viene poi in soccorso Cesare Pavese, per il quale il paese, il pavese, non è un'entità topografica ma topologica: il luogo in quanto mitico. Il luogo è una funzione logica da segnare con la A maiuscola, quella dell'altro. "Tale il mio paese, tale io". Ogni paese è il paese che mi pare e il paese che mi appare è mobile, straniante, sempre diverso. Ripensandolo posso turbarlo, posso modificarlo. Allo stesso modo di come posso modificare il passato (è l'ipotesi freudiana). Le strade di casa sono sempre diverse: per questo non si danno radici. Il paese non è un luogo fondante, l'infanzia non è un tempo fondante, ma semplicemente il tempo e il luogo che sono stati più alterati, modificati, interpretati. Ecco perché si tratta di questioni così importanti per il soggetto. Abbiamo accertato da tempo l'esplosione dello spazio urbano, che ha perso ogni riconoscibilità per diventare un territorio "desertico", non codificato, in cui si esercita un potere privo di ogni legittimazione. Le conseguenze per i soggetti sono evidenti: si è costretti ad essere onnipresenti, ad assumere la velocità come principio politico – scriveva già nel 1977 Paul Virilio - per non essere dimenticati. Un tempo le rivolte si praticavano contro l'assoggettamento, contro la costrizione all'immobilità. Nessuno avrebbe supposto che la conquista della libertà di andare e venire cara a Montaigne, sarebbe divenuta per un gioco di prestigio costrizione alla mobilità. Ci ritroviamo così tutti dromomani, parola che un tempo era riferita ai disertori o - nella nosografia psichiatrica - alla mania deambulatoria.

 Per tutto ciò e per altro, quando parliamo di nomi, di luoghi (c’è del luogo nel nome, c’è del nome nel luogo), di cose comuni, occorrerebbe un po' più di pensosità. Ritengo infatti sia ragionevole la supposizione che le statue non parlino deliberatamente. Tacciono, e basta.