sabato 23 ottobre 2021

La qualità dell'erba

 

LA QUALITA'  DELL' ERBA

detto senza riferimento alla cannabis

 

 "Il carico d'ingobbamento di un'asta o di un pannello di una data lunghezza dipende esclusivamente da I (o momento d'inerzia della sezione trasversale) e dal modulo di Young o rigidità del materiale di cui sono fatti. Un'asta lunga non si "rompe" quando si ingobba, ma si limita a piegarsi elasticamente in modo da schivare il carico. Se durante l'ingobbamento non si è superato il "limite elastico" del materiale, quando si rimuove il carico l'asta non farà altro che raddrizzarsi e riprendere la forma iniziale, senza che l'esperienza l'abbia minimamente turbata. Questa caratteristica può essere spesso un elemento positivo, poiché in questo modo è possibile progettare strutture "infrangibili". In termini più generali, è il modo in cui funzionano i tappeti e gli zerbini. Come è prevedibile, la natura usa questo principio in lungo e in largo, specialmente per piante basse come l'erba che vengono inevitabilmente calpestate. Ecco perché si può camminare su un prato senza danneggiarlo."

James Edward Gordon, Strutture, ovvero perché le cose stanno in piedi

 



 

Ricordo molto bene un negozio, in Corso Mazzini, chiuso ormai da molti anni. Un negozio piccolo, grigio, insignificante, ma il cui nome è incancellabile: "La casa della gomma". Luogo di desideri infantili, in anni in cui la plastica era un materiale nuovo, colorato, appetibile. La gomma e la plastica avevano un buon odore e significavano i canotti, le pinne e le maschere da sub, i palloni: "la casa della gomma" era la tappa agognata prima delle vacanze estive.

 Irrilevante il fatto che la gomma avesse una casa e che questa ne disponesse in tutte le varietà e multiformità, la fascinazione di un nome del genere penso debba essere ricondotta al potere dell'endiadi, alla posizione di vicinanza, alla suggerita consustanzialità tra casa e gomma. Passando da bambino per quel negozio ho sempre pensato a una casa morbida, fatta di gomma, oppure a una gomma in grado di cancellare le case. Dico quelle reali, non quelle che esistono nel disegno. I bambini si sa, con la scusa di non comprendere bene il confine tra realtà e fantasia, mettono in scena volentieri desideri distruttivi. Non a caso un bambino cresciutello come Louis Aragòn, a proposito di Anatole France, diceva "di sognare spesso una gomma per cancellare l'immondezza umana". Una forma di nihilismo e di radicalismo serpeggiante in molta urbanistica in attesa dell'apocalittica discesa della Grande Gomma Divina, ispirata dalla parola di Meister Eckardt per cui "'solo la mano che cancella può scrivere il vero".

Ma le cose (le case) possono essere cancellate? Difficile. Una volta apparse, anche solo per un attimo, anche se mero prodotto di fantasia, anche semplicemente nominate o sussurrate le cose esistono e se sono belle è per l'eternità. Sono dalla parte dell'erba e dunque in-frangibili.

Incancellabile per esempio il ruolo ricoperto per più di trent'anni dalle vetrine di Scola (all'angolo tra Corso Mazzini e Viale Trieste) e della Galleria Fiorentina. E più avanti, dopo il bar Gatto quello del Paradiso dei piccoli. In una città senza musei, senza gallerie d'arte, senza iniziativa pubblica e privata, e senza e senza e senza, quelle vetrine hanno avuto un'importantissima funzione vicariante di educazione estetica per più di una generazione di cosentini.

La prima inscenando con sapiente gusto scenografico le opere dei padri dell'attuale stilismo italiano e francese.

La seconda, una vera bottega d'oriente e nello stesso tempo un laboratorio di design, intrecciando un discorso a puntate sul cristallo e la porcellana, tra cineserie japaneserie e cultura del moderno.

Ma si trattava pur sempre di due vetrine di negozi. Una posizione insegnante troppo sottile per i tronfi miopi e locali archi-scrittori (s'intenda: politici, tecnici e costruttori).

Quando negli ultimi anni ci fu una presa di coscienza imprenditoriale e cooperativa e ad es. si è costituita l'associazione "Corsomazzini", l'entusiasmo e il discorso culturale in partenza erano forti ma pure privi di interlocutori, tra gli amministratori comunali, in grado di orientare e incentivarne l'operato.

Qualsiasi politico con un minimo d'intelligenza avrebbe potuto far propria l'headline "lo stile in una via" inducendo quell'associazione a contribuire attivamente a un piano colore e di omogeneizzazione delle insegne, alla creazione di una rete di servizi per il cittadino (prima ancora che per il cliente).

Così l'entusiasmo iniziale si è pian piano affievolito, fino agli esiti recenti dell'inevitabile spostamento d'interessi su Rende.

Immagino che la statua di Giugno (icona preminente nel marchio di quell'associazione) - per protesta - scenda da sopra la fontana e se ne vada. Ma non a Nord, a fare shopping. Che prenda la via della città vecchia. Magari per trasferirsi a Piazza Valdesi o a Piazza della Prefettura, per tener compagnia a Bernardino Telesio.

 

 

E' proprio la mancanza di elasticità nelle case, nelle cose e nelle persone, che si registra quotidianamente. E che duole. Mentre persino il cemento armato ne assicura un minimo non trascurabile, e mentre a quest'ultimo ci siamo ormai rassegnati lasciando il calore del legno al campo del sogno, è la mancanza di questa qualità dolce negli umani che si presenta con la forza dell'impatto.

E' per questo reiterato incidente mattutino che si è costretti - la sera - all'amara constatazione della prevalenza del cretino.

Poiché realisticamente non è possibile passare il tempo a rimpiangere la qualità dell'erba o ad attendere l'avvento degli intelligentoni senza crampi mentali, si tratta di provocare a qualsiasi livello scelte leggere e transitorie oppure di volare alto, insomma di correre il rischio del colossale.

 (Detto tra parentesi: Piazza Cappello, la G.I.L -vale a dire- l'ex cinema Italia, lungo Busento, Via Milelli, a Cosenza come in altre città, la vituperata architettura fascista resta l'ultima architettura accettabile e soprattutto riconoscibile.)

 

Elasticità e monumentalità possono andar d'accordo. Come dimostra quell'opera di land art, quel gesto minimale e grandioso, antifunzionale e disumano, che è il progetto Gregotti dell'università. Ed è un peccato che non si sia più realizzato il grattacielo rendese, chè quella abbisognava di una perpendicolare, perché la mappa mentale dei cittadini ha bisogno di punti di riferimento, di significanti architettonici forti.

Si veda al proposito la bellissima pagina di Osvaldo Soriano sull'obelisco di Buenos Aires ("Il manifesto", Il testimone immutabile, 5 Settembre 1987):

"...è sotto l'obelisco che ci troviamo ed è grazie ad esso che ci orientiamo in questa città gigantesca e degradata; (...) non abbiamo nient'altro che ci rappresenti meglio".

Nella curiosa metafora antropomorfa di Soriano, l'obelisco rappresenta "il naso" della città. (Sempre a proposito dell'utilità psichica e topologica del monumentale, si veda pure "la fame di Erettèo" che Elvio Fachinelli riportava dai sogni di suoi analizzandi, in una conversazione con "Casabella").

 Aveva fatto ben sperare il giorno in cui erano planati quei cinque oggetti non identificati, quelle cinque cupole dal geodetico omaggio a Buckminster Fuller. Tese a rafforzare l'immagine di un polo sportivo e moderno. Andando a affiancare quella piscina a forma di tartaruga. Un'idea genetica di lentezza che ha tristemente influenzato il destino dell'opera. Senonché anche le cupole, senza un minimo di arredo urbano e avvilite dall'utilizzazione tutta strapaesana e fieristica, invece di rappresentare uno spazio elastico e polifunzionale (poteva ad esempio essere ritrovo giovanile e pure un ottimo contenitore d'arte contemporanea), ha finito col tingersi di quello squallore tipico dei vecchi tendoni da circo di periferia. Sarà il caso di ricordare che proprio da quelle parti si ergeva un tempo, con discreto umorismo, la sgangherata tenda di Giangurgolo.

Occorre dire pure che per soddisfare la fame di Erettèo, di cose notevoli atte ad orientare, insomma di falli la cui significazione faccia da punto di riferimento per la mappa diciamo mentale di quel povero sbandato che è l'abitessere, quando quel monumentale si ritrova per le mani della grandeur politica e di incauti progettanti, allora è la fine della città (e della civiltà). Non è una visione apocalittica, è già nelle cose, è già successo. In altre parole, il progetto architettonico forte c'ha da essere, ma solo come lapsus d'autore: il resto deve essere necessariamente recupero e riuso degli innumerevoli "vuoti a perdere" (siamo proprio sicuri che parte del vecchio complesso ferroviario cosentino non potesse essere recuperato con altra destinazione d'uso?).

 

Monumentalità e leggerezza, significanti architettonici forti e strategie di recupero, possono andar d'accordo perché entrambi legate all'intelligenza delle soluzioni. Tutto il resto - a Cosenza - non può essere altro che edilizia.

 

(In memoria di Eugenio Anselmo)

La casa della gomma,

Il Quotidiano della Calabria, 19 Settembre 2004

 

 

 

 

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