sabato 23 ottobre 2021

La qualità dell'erba

 

LA QUALITA'  DELL' ERBA

detto senza riferimento alla cannabis

 

 "Il carico d'ingobbamento di un'asta o di un pannello di una data lunghezza dipende esclusivamente da I (o momento d'inerzia della sezione trasversale) e dal modulo di Young o rigidità del materiale di cui sono fatti. Un'asta lunga non si "rompe" quando si ingobba, ma si limita a piegarsi elasticamente in modo da schivare il carico. Se durante l'ingobbamento non si è superato il "limite elastico" del materiale, quando si rimuove il carico l'asta non farà altro che raddrizzarsi e riprendere la forma iniziale, senza che l'esperienza l'abbia minimamente turbata. Questa caratteristica può essere spesso un elemento positivo, poiché in questo modo è possibile progettare strutture "infrangibili". In termini più generali, è il modo in cui funzionano i tappeti e gli zerbini. Come è prevedibile, la natura usa questo principio in lungo e in largo, specialmente per piante basse come l'erba che vengono inevitabilmente calpestate. Ecco perché si può camminare su un prato senza danneggiarlo."

James Edward Gordon, Strutture, ovvero perché le cose stanno in piedi

 



 

Ricordo molto bene un negozio, in Corso Mazzini, chiuso ormai da molti anni. Un negozio piccolo, grigio, insignificante, ma il cui nome è incancellabile: "La casa della gomma". Luogo di desideri infantili, in anni in cui la plastica era un materiale nuovo, colorato, appetibile. La gomma e la plastica avevano un buon odore e significavano i canotti, le pinne e le maschere da sub, i palloni: "la casa della gomma" era la tappa agognata prima delle vacanze estive.

 Irrilevante il fatto che la gomma avesse una casa e che questa ne disponesse in tutte le varietà e multiformità, la fascinazione di un nome del genere penso debba essere ricondotta al potere dell'endiadi, alla posizione di vicinanza, alla suggerita consustanzialità tra casa e gomma. Passando da bambino per quel negozio ho sempre pensato a una casa morbida, fatta di gomma, oppure a una gomma in grado di cancellare le case. Dico quelle reali, non quelle che esistono nel disegno. I bambini si sa, con la scusa di non comprendere bene il confine tra realtà e fantasia, mettono in scena volentieri desideri distruttivi. Non a caso un bambino cresciutello come Louis Aragòn, a proposito di Anatole France, diceva "di sognare spesso una gomma per cancellare l'immondezza umana". Una forma di nihilismo e di radicalismo serpeggiante in molta urbanistica in attesa dell'apocalittica discesa della Grande Gomma Divina, ispirata dalla parola di Meister Eckardt per cui "'solo la mano che cancella può scrivere il vero".

Ma le cose (le case) possono essere cancellate? Difficile. Una volta apparse, anche solo per un attimo, anche se mero prodotto di fantasia, anche semplicemente nominate o sussurrate le cose esistono e se sono belle è per l'eternità. Sono dalla parte dell'erba e dunque in-frangibili.

Incancellabile per esempio il ruolo ricoperto per più di trent'anni dalle vetrine di Scola (all'angolo tra Corso Mazzini e Viale Trieste) e della Galleria Fiorentina. E più avanti, dopo il bar Gatto quello del Paradiso dei piccoli. In una città senza musei, senza gallerie d'arte, senza iniziativa pubblica e privata, e senza e senza e senza, quelle vetrine hanno avuto un'importantissima funzione vicariante di educazione estetica per più di una generazione di cosentini.

La prima inscenando con sapiente gusto scenografico le opere dei padri dell'attuale stilismo italiano e francese.

La seconda, una vera bottega d'oriente e nello stesso tempo un laboratorio di design, intrecciando un discorso a puntate sul cristallo e la porcellana, tra cineserie japaneserie e cultura del moderno.

Ma si trattava pur sempre di due vetrine di negozi. Una posizione insegnante troppo sottile per i tronfi miopi e locali archi-scrittori (s'intenda: politici, tecnici e costruttori).

Quando negli ultimi anni ci fu una presa di coscienza imprenditoriale e cooperativa e ad es. si è costituita l'associazione "Corsomazzini", l'entusiasmo e il discorso culturale in partenza erano forti ma pure privi di interlocutori, tra gli amministratori comunali, in grado di orientare e incentivarne l'operato.

Qualsiasi politico con un minimo d'intelligenza avrebbe potuto far propria l'headline "lo stile in una via" inducendo quell'associazione a contribuire attivamente a un piano colore e di omogeneizzazione delle insegne, alla creazione di una rete di servizi per il cittadino (prima ancora che per il cliente).

Così l'entusiasmo iniziale si è pian piano affievolito, fino agli esiti recenti dell'inevitabile spostamento d'interessi su Rende.

Immagino che la statua di Giugno (icona preminente nel marchio di quell'associazione) - per protesta - scenda da sopra la fontana e se ne vada. Ma non a Nord, a fare shopping. Che prenda la via della città vecchia. Magari per trasferirsi a Piazza Valdesi o a Piazza della Prefettura, per tener compagnia a Bernardino Telesio.

 

 

E' proprio la mancanza di elasticità nelle case, nelle cose e nelle persone, che si registra quotidianamente. E che duole. Mentre persino il cemento armato ne assicura un minimo non trascurabile, e mentre a quest'ultimo ci siamo ormai rassegnati lasciando il calore del legno al campo del sogno, è la mancanza di questa qualità dolce negli umani che si presenta con la forza dell'impatto.

E' per questo reiterato incidente mattutino che si è costretti - la sera - all'amara constatazione della prevalenza del cretino.

Poiché realisticamente non è possibile passare il tempo a rimpiangere la qualità dell'erba o ad attendere l'avvento degli intelligentoni senza crampi mentali, si tratta di provocare a qualsiasi livello scelte leggere e transitorie oppure di volare alto, insomma di correre il rischio del colossale.

 (Detto tra parentesi: Piazza Cappello, la G.I.L -vale a dire- l'ex cinema Italia, lungo Busento, Via Milelli, a Cosenza come in altre città, la vituperata architettura fascista resta l'ultima architettura accettabile e soprattutto riconoscibile.)

 

Elasticità e monumentalità possono andar d'accordo. Come dimostra quell'opera di land art, quel gesto minimale e grandioso, antifunzionale e disumano, che è il progetto Gregotti dell'università. Ed è un peccato che non si sia più realizzato il grattacielo rendese, chè quella abbisognava di una perpendicolare, perché la mappa mentale dei cittadini ha bisogno di punti di riferimento, di significanti architettonici forti.

Si veda al proposito la bellissima pagina di Osvaldo Soriano sull'obelisco di Buenos Aires ("Il manifesto", Il testimone immutabile, 5 Settembre 1987):

"...è sotto l'obelisco che ci troviamo ed è grazie ad esso che ci orientiamo in questa città gigantesca e degradata; (...) non abbiamo nient'altro che ci rappresenti meglio".

Nella curiosa metafora antropomorfa di Soriano, l'obelisco rappresenta "il naso" della città. (Sempre a proposito dell'utilità psichica e topologica del monumentale, si veda pure "la fame di Erettèo" che Elvio Fachinelli riportava dai sogni di suoi analizzandi, in una conversazione con "Casabella").

 Aveva fatto ben sperare il giorno in cui erano planati quei cinque oggetti non identificati, quelle cinque cupole dal geodetico omaggio a Buckminster Fuller. Tese a rafforzare l'immagine di un polo sportivo e moderno. Andando a affiancare quella piscina a forma di tartaruga. Un'idea genetica di lentezza che ha tristemente influenzato il destino dell'opera. Senonché anche le cupole, senza un minimo di arredo urbano e avvilite dall'utilizzazione tutta strapaesana e fieristica, invece di rappresentare uno spazio elastico e polifunzionale (poteva ad esempio essere ritrovo giovanile e pure un ottimo contenitore d'arte contemporanea), ha finito col tingersi di quello squallore tipico dei vecchi tendoni da circo di periferia. Sarà il caso di ricordare che proprio da quelle parti si ergeva un tempo, con discreto umorismo, la sgangherata tenda di Giangurgolo.

Occorre dire pure che per soddisfare la fame di Erettèo, di cose notevoli atte ad orientare, insomma di falli la cui significazione faccia da punto di riferimento per la mappa diciamo mentale di quel povero sbandato che è l'abitessere, quando quel monumentale si ritrova per le mani della grandeur politica e di incauti progettanti, allora è la fine della città (e della civiltà). Non è una visione apocalittica, è già nelle cose, è già successo. In altre parole, il progetto architettonico forte c'ha da essere, ma solo come lapsus d'autore: il resto deve essere necessariamente recupero e riuso degli innumerevoli "vuoti a perdere" (siamo proprio sicuri che parte del vecchio complesso ferroviario cosentino non potesse essere recuperato con altra destinazione d'uso?).

 

Monumentalità e leggerezza, significanti architettonici forti e strategie di recupero, possono andar d'accordo perché entrambi legate all'intelligenza delle soluzioni. Tutto il resto - a Cosenza - non può essere altro che edilizia.

 

(In memoria di Eugenio Anselmo)

La casa della gomma,

Il Quotidiano della Calabria, 19 Settembre 2004

 

 

 

 

Non luogo a procedere

 

La casa della gomma,

Il Quotidiano della Calabria, 19 Settembre 2004



Domenica scorsa, stesso spazio stesso giornale, ho effettuato alcune scansioni temporali di ciò che in città (ma occorrerebbe estendere l’analisi a livello regionale) ha dato un contributo all’educazione estetica (se non proprio artistica) dei cittadini. Ho citato pure alcuni dei gap e dei punti di debolezza che ci rendono sussiegosi quando ci si propone in pompa magna una nuova acquisizione griffata e decontestualizzata. Erano scansioni veloci, fatte con lo scanner della mia memoria traballante, che esigenze di spazio del giornale hanno limitato alla sola città di Cosenza. L’amico Sicoli ha forse supposto una mia contrarietà di fondo alla donazione Bilotti o una possibilità di strumentalizzazione in tal senso del mio intervento. Non è così e non avrei certo preso la parola per questo. Come ironicamente ricorda mi occupo di randagi e testi pubblicitari (pochissimi i secondi), mentre con l’arte mantengo un rapporto amichevole, da dilettante. Volevo solo contestualizzare e probabilmente complicare il dibattito fin qui sviluppatosi. L’intento era quello di esplorare, in un discorso dichiaratamente antipedagogico, gli elementi di una educazione “preterintenzionale”, ciò che ha “punto”, gli stimoli e le scintille nei confronti dell’arte per più generazioni di calabresi: nomi, cose, luoghi, eventi.

 

I miei punti di riferimento, da Sud a Nord, sono Piazza della Prefettura (poco importa se la prefettura è oggi altrove e la piazza si chiama in altro modo), Palazzo degli Uffici (uno slargo con una scalinata che da trent'anni facilita la sosta e che nel corso degli anni ha cambiato un paio di denominazioni), Corso Mazzini, Piazza Kennedy (quella del bar Manna, con o senza colombe), Piazza Fera. Nessuna emergenza architettonica particolare, solo nomi (è il caso di Fera e Kennedy), panchine e vetrine: quella della libreria Cianflone, più avanti negli anni quella della libreria Il Castello, alcuni negozi di moda e di oggettistica. Non c'è mai stata architettura riconoscibile, forse basterebbe dire architettura punto e basta, salvo quella bella e fascista della gioventù littoria, dall'area del lungo Busento fino a Piazza Cappello, che però non rientrava nei miei spazi di percorrenza.

 

Ricordo molto bene un negozio, in Corso Mazzini, chiuso ormai da molti anni. Un negozio piccolo, grigio, insignificante, ma il cui nome è incancellabile: "La casa della gomma". Luogo di desideri infantili, in anni in cui la plastica era un materiale nuovo, colorato, appetibile. La gomma e la plastica avevano un buon odore e significavano i canotti, le pinne e le maschere da sub, i palloni: "la casa della gomma" era la tappa agognata prima delle vacanze estive.

Irrilevante il fatto che la gomma (alla lettera) avesse una casa e che questa ne disponesse in tutte le varietà e multiformità, la fascinazione di un nome del genere penso debba essere ricondotta al potere dell'endiadi, alla posizione di vicinanza, alla suggerita consustanzialità tra casa e gomma. Passando da bambino per quel negozio ho sempre pensato a una casa morbida, fatta di gomma, oppure a una gomma in grado di cancellare le case. Dico quelle reali, non quelle che esistono nel disegno. I bambini si sa, con la scusa di non comprendere bene il confine tra realtà e fantasia, mettono in scena volentieri desideri distruttivi. Non a caso un bambino cresciutello come Louis Aragòn, a proposito di Anatole France, diceva "di sognare spesso una gomma per cancellare l'immondezza umana". Una forma di nihilismo e di radicalismo serpeggiante in molta urbanistica in attesa dell'apocalittica discesa della Grande Gomma Divina, ispirata dalla parola di Meister Eckardt per cui "'solo la mano che cancella può scrivere il vero".

 

Ma le cose (le case) possono essere cancellate? Difficile. Una volta apparse, anche solo per un attimo, anche se mero prodotto di fantasia, anche semplicemente nominate o sussurate le cose esistono e se sono belle è per l'eternità. Sono dalla parte dell'erba e dunque in-frangibili. La libreria Cianflone e poi Il Castello, La casa della gomma, insieme alle vetrine di Mazzocca, Galleria Fiorentina, Forgione, Ultimoda Scola, sono stati i miei punti di riferimento, la mia bussola, il mio ancoramento alla città.

 

Anni fa mi capitò un'esperienza di gruppo molto interessante con dei docenti di scuola superiore. Era loro richiesto - si trattava di un esercizio di mapping - di spiegare a un ipotetico amico, in modo chiaro e sintetico e avvelendosi di uno schizzo, come raggiungere la propria casa. Verificammo subito come il riferimento costante era alle uscite autostradali e alle pompe di benzina e che le forme salienti erano una ruspa dimenticata o un'autofficina Fiat certo non monumentale nel fenotipo architettonico ma nell'essere “l'unica autorizzata”. Una volta ammutolite le chiese, sono quest'ultime i testimoni colorati, gli unici significanti architettonici della modernità di un certo rilievo. In altri casi la descrizione è comunque automobilistica: linee di fuga, ponti, alberi, il ricordo di qualche palma, descritti da dietro un finestrino in corsa. Questi erano i disegni, i mental maps.

 Un altro esercizio richiedeva la descrizione del proprio centro storico e quelle si rivelarono invece tutte di ordine sinestesico e poetico.

Per Rosanna Meduri il profumo dei fiori di Reggio Calabria si mischia a quello della salsedine e allo “struscio” dei ragazzi.

Rosanna Malaspina ricorda una ringhiera in ferro battuto. Bella e arrugginita.

Per Elio Delle Fave, Reggio è tutta in un'atmosfera generata dai tavolini dei caffè. Che non ci sono più.

Per Rosaria Puntillo è un problema di avvicinamento. Occorre superare l'ostacolo del degrado delle periferie. Ma il cuore possiede un'antica dignità e pure un emblema: i damaschi sventolanti dai balconi in onore della Vergine.

Donatella D'Ambra ricorda, ai piedi del castello, un venditore di cocomeri con un'insegna a fumetti.

Per Nunzia Ottomani Reggio coincide con la piazza del duomo. Più precisamente consiste nell'impressione di un abbraccio: quello dello spazio col tempo.

Giovanni Sgammotta ricorda Vallefiorita. Un paese piccolo piccolo dal nome programmatico. Eccone la cifra: un nome che cattura, i vecchi che raccontano, i giovani che sperano.

Caterina Nolesci nelle viuzze di Catanzaro si sente a proprio agio, del tutto: in famiglia.

Per Chiara Suraci è ancora vivo il ricordo di certi davanzali col basilico coltivato nelle scatole, nelle “buatte” dei pelati.

Silvana Castagna, incantata da una madonna dipinta da chissà chi, passava accanto a una bettola dall'acre odore di vino. Ancora oggi ripassando da quelle parti, anche se la bettola non c'è più, risente lo stesso odore. Impregnazione del luogo fisico o del suo privato luogo mentale, chissà?

Per Annunziata Rubino i suoi ricordi sono un innesto di ricordi altrui, quelli di sua nonna. Se dovesse disegnarli il confine sarebbe labile, permeabile, una barriera molle. Ricorda una chiesa di Stefanaconi che ha resistito ai vari terremoti ma non all'ottusità di un sindaco e che viene abbattuta. Assieme ai suoi giochi preferiti.

Per Luigia Stricagnolo, Crotone è una buccia di mandarino bruciata nel braciere. Oppure è un litigio la cui durata è marcata dalla presenza di una scopa fuori dell'uscio.

A Nicotera prevale l'olfatto. Per Agostino Mercuri, Nicotera e più in generale la città vecchia è tutta nella sapienza del fiuto. Mentre gli uomini delle città anonime fanno confusione, fraintendono persino gli odori. L'unico fiuto che gli resta, a volte, è quello degli affari.

Per Francesco Pagnotta dalle case basse promana l'odore della muffa-

Per Carmela Rodolico è - oggi- fetore di aggiughe salate, di scatole vuote, di frutta marcia.

A Cosenza Anna Salfi ripercorrerebbe volentieri - e lo fa mentalmente - i pochi metri “molto diversi”di un tragitto: quello che a Cosenza collega piazza dei Valdesi alla piazzetta dei pesci.

Per Marilena De Bonis, Cosenza vecchia è un cartello che prescrive "vetture al passo". Una quiete turbata dalle onduline di plastica.

Rosaria Vecchio ricorda invece i vecchi curvi sulla soglia e l'odore dello zucchero filato alla fiera di S.Giuseppe.

Ada Tucci s'interroga sulla vocazione di grandezza, nella dimensione fisica e nella portata simbolica. Saprà ritrovarla, sarà con o senza tesoro?

Anna Giannicola continua a vivere questa parte della città. Intrattiene con essa una relazione di reciprocità: è l'unica parte di città riconoscibile e dotata di identità, ed è - Anna - riconosciuta da essa, dalla gente che la abita.

Maria Errico inscena un dubbio: sarà o non sarà la sua città. Odore di muffa e di bagnato, gatti grossi troppo grassi per la miseria dei bassi. Scale, tante scale, bagnate di pioggia: come faranno le donne col pancione a non scivolare?

Teresa Coscarelli ricorda il peso dei vocabolari per Corso Telesio e la storia d'amore dei nonni vissuta dalla finestra delle loro case. Una di fronte all'altra.

Marialuigia Campolongo ricorda Permesso, Popoì e Biki-biki. I personaggi della sua città, vissuta a piedi, senza rumori eppure così sonora. Una città che può stare benissimo dentro un foglio protocollo o in un quaderno dell'antica cartoleria Scornaienchi.

 Su tanta intelligenza poetica mi asterrò da qualsiasi commento.

E' di Benjamin la distinzione tra l'ottica con cui una città è vista da uno straniero e da un nativo del luogo: mentre lo straniero ha una visione prevalentemente spaziale, il nativo ne ha una visione soprattutto temporale. Le mappe e ancor più le osservazioni ad esse connesse s'inscrivono in una topografia culturale, "presuppongono un viaggio della mente e un'idea di spazio che, di epoca in epoca, accrescono le possibilità spirituali non solo di chi guarda l'oggetto città, ma dell'oggetto guardato; non solo di chi pensa, ma dell'oggetto pensato" (Maria Corti).

Mi viene poi in soccorso Cesare Pavese, per il quale il paese, il pavese, non è un'entità topografica ma topologica: il luogo in quanto mitico. Il luogo è una funzione logica da segnare con la A maiuscola, quella dell'altro. "Tale il mio paese, tale io". Ogni paese è il paese che mi pare e il paese che mi appare è mobile, straniante, sempre diverso. Ripensandolo posso turbarlo, posso modificarlo. Allo stesso modo di come posso modificare il passato (è l'ipotesi freudiana). Le strade di casa sono sempre diverse: per questo non si danno radici. Il paese non è un luogo fondante, l'infanzia non è un tempo fondante, ma semplicemente il tempo e il luogo che sono stati più alterati, modificati, interpretati. Ecco perché si tratta di questioni così importanti per il soggetto. Abbiamo accertato da tempo l'esplosione dello spazio urbano, che ha perso ogni riconoscibilità per diventare un territorio "desertico", non codificato, in cui si esercita un potere privo di ogni legittimazione. Le conseguenze per i soggetti sono evidenti: si è costretti ad essere onnipresenti, ad assumere la velocità come principio politico – scriveva già nel 1977 Paul Virilio - per non essere dimenticati. Un tempo le rivolte si praticavano contro l'assoggettamento, contro la costrizione all'immobilità. Nessuno avrebbe supposto che la conquista della libertà di andare e venire cara a Montaigne, sarebbe divenuta per un gioco di prestigio costrizione alla mobilità. Ci ritroviamo così tutti dromomani, parola che un tempo era riferita ai disertori o - nella nosografia psichiatrica - alla mania deambulatoria.

 Per tutto ciò e per altro, quando parliamo di nomi, di luoghi (c’è del luogo nel nome, c’è del nome nel luogo), di cose comuni, occorrerebbe un po' più di pensosità. Ritengo infatti sia ragionevole la supposizione che le statue non parlino deliberatamente. Tacciono, e basta.

 


 

Gli angoli delle cartoline

 

Gli angoli delle cartoline

L’impronta, culture fotografiche
Via Calabria 3D, Cosenza

Storie di spazi

dal 5 gennaio 2016

testi di Nello Rossi, Sonia Ferrari, Antonio Armentano, Erminia d’Alessandro


Massimo Celani
Gli angoli* delle cartoline

* La caduta degli angeli, non sarebbe piuttosto la caduta degli angoli? 
In ebraico esiste un solo vocabolo per esprimere le due cose, scriveva Cocteau.
 La prendiamo per buona: è troppo difficile da verificare. Chissà!


Mi capita spesso di desiderare la sparizione della cassetta postale. Oggetto, un tempo polimorfo e aperto alla varietà dell'emittenza oggi solo perverso, che a lungo segnalava una presenza, una residenza, un recapito, un fuoco, un'abitazione, un luogo di lavoro.
Se in un box c'è scritto a corpo piccolo "Massimo Celani" vorrà pur dire che esisto e che sono nei paraggi. Ora però che le cartoline e le lettere degli amici le ricevo per posta elettronica, che gli auguri di compleanno me li fa Facebook (nell'orribile forma di un automatismo estorsivo: oggi compie gli anni Tizio, domani li compie Caio,“invia loro i tuoi auguri”) e che quel box viene intasato dall'Enel (a breve pure dal canone Rai abilmente spalmato), dall'Enigas e da altre gestori, da Equitalia e dalla Fondazione per la ricerca sul cancro (saranno forse la stessa cosa?) e da altri soggetti come le ong che i soldi da te non li pretendono ma auspicano fortemente che tu glieli invii tanto sono esiziali per i loro destini, è umana la voglia di farla a pezzi.


La destinazione d'uso più nobile della cassetta postale è stata ricevere cartoline. Frammenti di paesaggio e lembi di alterità in forma di pensiero da/per gli amici: sono stato a Honolulu o a Zumpano Scalo e ti ho pensato. Saluti spiritosi (tipo "salutam'assuorta"), seguono firme.
La cartolina ha due lati (un angolo di mondo e sul retro un francobollo - che è un'altra metonimia - il destinatario, un'indirizzo e un tweet) e pure due versanti: la forma breve e il frammento. Rientra appieno nella brevitas connotativa della modernità, tendente al frammento, residuo di un naufragio delle forme e dei generi[1].  Elusiva ed ellittica, tende a vivere della sua autonomia, ma può anche comporre con altri frammenti un quadro più ampio. E' il caso di questa serie dove ogni cartolina è tessera, tassello, parte di un tutto che è la città di un tempo. Cosenza, di un'epoca antica e nello stesso tempo di più epoche, città di un tempo alla cui ricostruzione in via comparativa o in via stratigrafica Antonio Armentano allude elegantemente. Ecco la Mouvance, la dimensione temporale del territorio. Parola che nel diritto feudale significa “dipendenza” (di un feudo), “sfera di influenza” e poi “mobilità, mutevolezza”.


Più che "ricostruzione" sarebbe più corretto dire "prefigurazione", se non fosse per quel "pre" molto critico e con l'arietta del post.
Post-figurazione indiziaria e après coup, attraverso luoghi notevoli, tropi e stereotipi, scene madri e atmosfere caratteristiche di ciò che fu città. Una cartolina con un frammento di città è un'operazione che complica la vita alla dicotomia benjaminiana della città vista dal turista o da un nativo[2]: la foto di una cartolina postale solitamente è realizzata da un nativo (ma potrebbe essere di un autore parte di un dispositivo di postcard) e viene inviata a un cittadino residente altrove. Non è dunque frutto del mio sguardo di viaggiatore, ma visione - anche se stereotipata - della comunità dei nativi. Non si tratta dell'angulus ridet che ci sorprende e ci punge, ma visione standardizzata - o se si preferisce canonizzata - di un'immagine di città.
Nella rivoluzione estetica e filosofica della modernità postromantica la brevitas si dirige verso una frammentarietà forse più evidente e autonoma, nella doppia direzione di una scrittura che testimonia da un lato la frantumazione dell’unità e l’impossibilità di una qualsiasi sintesi idealista[3]. Si veda a tal proposito il tramonto della grande pianificazione col conseguente cedere il passo a modelli dinamici, a cascata, comunque centrati su una pragmatica dagli effetti virtuosi. Meno gabbie concettuali, più sensibilità topologica, l'attività di planning è immancabilmente site specific.


Una cartolina è dell’ordine del taglio e della sottrazione. In retorica si costituisce grazie all’ellissi e alla reticenza, oltre che alla brevitas. Incarnazione paolina del “downsizing”, della riduzione dei supporti[4]. Quando poi la cartolina ritrae un angolo peculiare di una città siamo in presenza di una metonimia (nel senso più proprio di sineddoche, come parte di uno o più edifici) di una metonimia (l’elemento architettonico come rappresentante rappresentativo dell’intera città). Il taglio, vale a dire l’inquadratura, mette ordine e tacita il superfluo, le superfetazioni, lo sporco. Già in partenza silenzia l’innecessario dal punto di vista della coerenza formale. Per non parlare di ciò che sarà, di ciò che verrà ad agglutinarsi nel dipoi, nelle epoche a seguire, segnate dalla sauvagerie dell’edilizia. Colpisce, questa Cosenza, quanto sia senza un sacco di cose, brutte e inutili, che solo un maledetto horror vacui è stato in grado di determinare. Segno che le cartoline delle città in fondo sono un prodotto detergente, ci mostrano una igiene ex-ante dei luoghi, ci consegnano la loro sintassi.






Si mostra qui una Cosenza amabile, innamorabile. La cosa riguarda sia i nativi, i cosentini, sia i turisti o chi di passaggio (per brevi periodi di residenza – è il caso del feedback di tutti i partecipanti alle residenze artistiche dei BoCs) ha l’occasione d’invaghirsene. Certo si tratta di una fissazione narcisistica ed è Freud a ricordarcene la struttura quando parla della Verliebtheit (cioè dell’innamoramento) e del Narzissmustypus. “E' fissato dal fatto che si ama innanzitutto quello che si è, cioè, Freud lo precisa tra parentesi, se stessi; in secondo luogo ciò che si è stati; in terzo luogo ciò che si vorrebbe essere; in quarto luogo la persona che è stata una parte del proprio io”[5]. Se, per qualche perversione gerontofila, l’investimento avesse come oggetto una vecchia signora qual è un centro storico o comunque la parte vecchia della città (ovviamente comprendendo tutta le realizzazioni di epoca fascista), l’articolazione non varierebbe: si ama ciò che si è, ciò che si è stati, ciò che si vorrebbe essere, oltre che gli angoli e i luoghi che sono stata parte delle nostre identificazioni costitutive.                                                                                                                                                                                                                                                                                   



       
                                                                 
Ex-post è facile dire che quella era la città ideale. Infatti è “come si vorrebbe essere visti”. Ma, non sfugga il particolare, è immaginaria.[6]
Per Derrida la filosofia stessa può essere considerata come una cartolina postale “scritta con l'intenzione di arrivare a destinazione ma che in realtà non lo fa. La filosofia che raggiunge la destinazione e che si distrugge in quest'ultima cessa di essere filosofia vera" (Jacques Derrida, La carte postale[7]).



“Cara Signora Tosoni”, alla quale Jacques Gubler indirizzò 129 cartoline, apparve ai più un destinatario finzionale, un po’ come la casalinga di Voghera evocata da Alberto Arbasino, stereotipo dell’italietta piccolo-borghese e del “solido buon senso lombardo”. Apparve per la prima volta nel numero 478 di marzo 1982 di ‘Casabella’, come elemento caratterizzante della direzione di Vittorio Gregotti.[8] Solo pochi addetti ai lavori sapevano che la signora Tosoni era la segretaria (poi promossa sul campo coordinatrice) di redazione di una delle più importanti riviste d’architettura, collaboratrice di Ernesto Nathan Rogers, poi di Bernasconi, Mendini, Maldonado, Gregotti e Dal Co. Finché Skira, nel 2006, le dedicò un bellissimo volume curato dallo stesso Jacques Gubler, “Cara signora Tosoni. Le cartoline di Casabella 1982-1996”.



La fotografia come il linguaggio non sono fini a se stessi, e quando lo diventano si trasformano in qualcosa di arido e pedante. Così può capitare che una piccola cartolina, vale a dire un incastro verbo-visivo coerente, certo vivificata dall’arguzia dello storico dell’arte svizzero, finisca col reggere 14 annate di dibattito architettonico/urbanistico (pure compensando col suo umorismo minimalista un eccesso di prosopopea accademica).
Gli architetti, gli stilisti, gli antropologi, gli studiosi del costume e del paesaggio, dovrebbero erigere un monumento alla cartolina. Magari in modo non monumentale: un formato 10x15 è sufficiente.






[1] Emilien Sermier, in www.fabula.org (21 juillet 2015), a proposito di  “Brevitas. Parcours esthétiques entre la forme brève et le fragment dans la littérature occidentale », Colloquio di Trento, 4-6 novembre 2015
[2] Walter Benjamin, Immagini di città, Einaudi, 2007. Sua la distinzione tra l'ottica con cui una città è vista da uno straniero e da un nativo del luogo: mentre lo straniero ha una visione prevalentemente spaziale, il nativo ne ha una visione soprattutto temporale. Le mappe e ancor più le osservazioni ad esse connesse s'inscrivono in una topografia culturale, "presuppongono un viaggio della mente e un'idea di spazio che, di epoca in epoca, accrescono le possibilità spirituali non solo di chi guarda l'oggetto città, ma dell'oggetto guardato; non solo di chi pensa, ma dell'oggetto pensato." (Maria Corti, La città come luogo mentale, in "Casabella" n.535, 1987)

[3] Emilien Sermier, in www.fabula.org (op.cit)

[4] Pino Stancari s.J. glossa così la lettura di San Paolo : « Nostro Signore Gesù Cristo è il sì, l’amen, il farsi piccolo di Colui che è grande. Piccolezza dell’incontenibile”. In “Brevitas”, conversazione con Pino Stancari, Alberto Abruzzese, Daniele Gambarara e Marcello Walter Bruno, a cura di Massimo Celani, RAI – Radio1, Audiobox, 1985.
[5] Jacques Lacan (1953-1954), Il seminario, Libro I, Gli scritti tecnici di Freud, ed, it. a cura di Giacomo Contri, Einaudi, 1978 (pp. 164-165).
[6] A Lacan non sfugge la distinzione freudiana tra Ich-Ideal (l’Io Ideale) e Ideal-Ich (l’Ideale dell’Io). L’Io ideale appartiene al registro dell’immaginario e riguarda l’immagine idealizzata del soggetto (è “come si vorrebbe essere visti”). L’Ideale dell’Io (registro del simbolico) è frutto dell’identificazione edipica, ed è in relazione allo sguardo sociale, agli ideali condivisi, all’appartenenza al gruppo (mentre il Super Io – che ricade nel registro del reale - si pone come analogon dell’Ideale dell’Io nei suoi aspetti punitivi o vendicativi). Cfr. J. Lacan (1953-1954), Il seminarioLibro I (op.cit.) e J. Lacan, (1954-1955), Il seminario, Libro II, L’io nella teoria di Freud e nella tecnica della psicoanalisi, ed. it. a cura di A. Di Ciaccia, Einaudi, Torino 2006.

[7] “Potreste leggere questi invii come la prefazione di un libro che non ho mai scritto. Vi avreste trovato una trattazione che va dalle poste, di ogni genere di poste, alla psicoanalisi. Non tanto per tentare una psicoanalisi dell’effetto postale, quanto piuttosto per rinviare da un evento singolare, la psicoanalisi freudiana, ad una storia e ad una tecnologia del corriere, ad una qualsiasi teoria generale dell’invio e di tutto ciò che attraverso una qualsivoglia telecomunicazione pretende destinarsi. (…)  Chi scrive? A chi? E per inviare, destinare, spedire cosa? A quale indirizzo? Senz’alcun desiderio di sorprendere, e quindi di catturare l’attenzione a forza di oscurità, devo, per l’onestà che mi rimane, dire che, alla fine, non lo so. Soprattutto non avrei accordato il minimo interesse a questa corrispondenza e a questo découpage, voglio dire, alla loro pubblicazione, se una qualche certezza, su questo punto, mi avesse soddisfatto. Il fatto che i firmatari e i destinatari non siano sempre visibilmente e necessariamente identici da un invio all’altro, che i firmatari non si confondano forzatamente con coloro che inviano, né i destinatari con coloro che ricevono, ovvero con i lettori (tu, per esempio), etc., ne farete l’esperienza e lo sentirete a volte molto vivamente e anche confusamente. Ed è a causa di ciò e del sentimento sgradevole che ne viene che prego ogni lettore ed ogni lettrice di perdonarmi”. Jacques Derrida, La carte postale. Da Socrate a Freud e al di là, Mimesis, 2015 (Flammarion, 1980).

[8] “Cara Signora Tosoni, Questa casa sul canale a Gravesend (Kent) mi ricorda che Lei ama David Copperfield. Era anche il romanzo preferito di Dickens. Dostojevskij l’aveva letto all’uscita dal carcere. Questo libro è un esempio di “buon uso” della nostalgia. (…) (la cartolina raffigura la “Casa di Pegotty” a Gravesend, demolita nel 1933). Vorrei confermare la perennità dei miei sentimenti di rispetto. Suo Gubler.”