sabato 23 ottobre 2021

Non luogo a procedere

 

La casa della gomma,

Il Quotidiano della Calabria, 19 Settembre 2004



Domenica scorsa, stesso spazio stesso giornale, ho effettuato alcune scansioni temporali di ciò che in città (ma occorrerebbe estendere l’analisi a livello regionale) ha dato un contributo all’educazione estetica (se non proprio artistica) dei cittadini. Ho citato pure alcuni dei gap e dei punti di debolezza che ci rendono sussiegosi quando ci si propone in pompa magna una nuova acquisizione griffata e decontestualizzata. Erano scansioni veloci, fatte con lo scanner della mia memoria traballante, che esigenze di spazio del giornale hanno limitato alla sola città di Cosenza. L’amico Sicoli ha forse supposto una mia contrarietà di fondo alla donazione Bilotti o una possibilità di strumentalizzazione in tal senso del mio intervento. Non è così e non avrei certo preso la parola per questo. Come ironicamente ricorda mi occupo di randagi e testi pubblicitari (pochissimi i secondi), mentre con l’arte mantengo un rapporto amichevole, da dilettante. Volevo solo contestualizzare e probabilmente complicare il dibattito fin qui sviluppatosi. L’intento era quello di esplorare, in un discorso dichiaratamente antipedagogico, gli elementi di una educazione “preterintenzionale”, ciò che ha “punto”, gli stimoli e le scintille nei confronti dell’arte per più generazioni di calabresi: nomi, cose, luoghi, eventi.

 

I miei punti di riferimento, da Sud a Nord, sono Piazza della Prefettura (poco importa se la prefettura è oggi altrove e la piazza si chiama in altro modo), Palazzo degli Uffici (uno slargo con una scalinata che da trent'anni facilita la sosta e che nel corso degli anni ha cambiato un paio di denominazioni), Corso Mazzini, Piazza Kennedy (quella del bar Manna, con o senza colombe), Piazza Fera. Nessuna emergenza architettonica particolare, solo nomi (è il caso di Fera e Kennedy), panchine e vetrine: quella della libreria Cianflone, più avanti negli anni quella della libreria Il Castello, alcuni negozi di moda e di oggettistica. Non c'è mai stata architettura riconoscibile, forse basterebbe dire architettura punto e basta, salvo quella bella e fascista della gioventù littoria, dall'area del lungo Busento fino a Piazza Cappello, che però non rientrava nei miei spazi di percorrenza.

 

Ricordo molto bene un negozio, in Corso Mazzini, chiuso ormai da molti anni. Un negozio piccolo, grigio, insignificante, ma il cui nome è incancellabile: "La casa della gomma". Luogo di desideri infantili, in anni in cui la plastica era un materiale nuovo, colorato, appetibile. La gomma e la plastica avevano un buon odore e significavano i canotti, le pinne e le maschere da sub, i palloni: "la casa della gomma" era la tappa agognata prima delle vacanze estive.

Irrilevante il fatto che la gomma (alla lettera) avesse una casa e che questa ne disponesse in tutte le varietà e multiformità, la fascinazione di un nome del genere penso debba essere ricondotta al potere dell'endiadi, alla posizione di vicinanza, alla suggerita consustanzialità tra casa e gomma. Passando da bambino per quel negozio ho sempre pensato a una casa morbida, fatta di gomma, oppure a una gomma in grado di cancellare le case. Dico quelle reali, non quelle che esistono nel disegno. I bambini si sa, con la scusa di non comprendere bene il confine tra realtà e fantasia, mettono in scena volentieri desideri distruttivi. Non a caso un bambino cresciutello come Louis Aragòn, a proposito di Anatole France, diceva "di sognare spesso una gomma per cancellare l'immondezza umana". Una forma di nihilismo e di radicalismo serpeggiante in molta urbanistica in attesa dell'apocalittica discesa della Grande Gomma Divina, ispirata dalla parola di Meister Eckardt per cui "'solo la mano che cancella può scrivere il vero".

 

Ma le cose (le case) possono essere cancellate? Difficile. Una volta apparse, anche solo per un attimo, anche se mero prodotto di fantasia, anche semplicemente nominate o sussurate le cose esistono e se sono belle è per l'eternità. Sono dalla parte dell'erba e dunque in-frangibili. La libreria Cianflone e poi Il Castello, La casa della gomma, insieme alle vetrine di Mazzocca, Galleria Fiorentina, Forgione, Ultimoda Scola, sono stati i miei punti di riferimento, la mia bussola, il mio ancoramento alla città.

 

Anni fa mi capitò un'esperienza di gruppo molto interessante con dei docenti di scuola superiore. Era loro richiesto - si trattava di un esercizio di mapping - di spiegare a un ipotetico amico, in modo chiaro e sintetico e avvelendosi di uno schizzo, come raggiungere la propria casa. Verificammo subito come il riferimento costante era alle uscite autostradali e alle pompe di benzina e che le forme salienti erano una ruspa dimenticata o un'autofficina Fiat certo non monumentale nel fenotipo architettonico ma nell'essere “l'unica autorizzata”. Una volta ammutolite le chiese, sono quest'ultime i testimoni colorati, gli unici significanti architettonici della modernità di un certo rilievo. In altri casi la descrizione è comunque automobilistica: linee di fuga, ponti, alberi, il ricordo di qualche palma, descritti da dietro un finestrino in corsa. Questi erano i disegni, i mental maps.

 Un altro esercizio richiedeva la descrizione del proprio centro storico e quelle si rivelarono invece tutte di ordine sinestesico e poetico.

Per Rosanna Meduri il profumo dei fiori di Reggio Calabria si mischia a quello della salsedine e allo “struscio” dei ragazzi.

Rosanna Malaspina ricorda una ringhiera in ferro battuto. Bella e arrugginita.

Per Elio Delle Fave, Reggio è tutta in un'atmosfera generata dai tavolini dei caffè. Che non ci sono più.

Per Rosaria Puntillo è un problema di avvicinamento. Occorre superare l'ostacolo del degrado delle periferie. Ma il cuore possiede un'antica dignità e pure un emblema: i damaschi sventolanti dai balconi in onore della Vergine.

Donatella D'Ambra ricorda, ai piedi del castello, un venditore di cocomeri con un'insegna a fumetti.

Per Nunzia Ottomani Reggio coincide con la piazza del duomo. Più precisamente consiste nell'impressione di un abbraccio: quello dello spazio col tempo.

Giovanni Sgammotta ricorda Vallefiorita. Un paese piccolo piccolo dal nome programmatico. Eccone la cifra: un nome che cattura, i vecchi che raccontano, i giovani che sperano.

Caterina Nolesci nelle viuzze di Catanzaro si sente a proprio agio, del tutto: in famiglia.

Per Chiara Suraci è ancora vivo il ricordo di certi davanzali col basilico coltivato nelle scatole, nelle “buatte” dei pelati.

Silvana Castagna, incantata da una madonna dipinta da chissà chi, passava accanto a una bettola dall'acre odore di vino. Ancora oggi ripassando da quelle parti, anche se la bettola non c'è più, risente lo stesso odore. Impregnazione del luogo fisico o del suo privato luogo mentale, chissà?

Per Annunziata Rubino i suoi ricordi sono un innesto di ricordi altrui, quelli di sua nonna. Se dovesse disegnarli il confine sarebbe labile, permeabile, una barriera molle. Ricorda una chiesa di Stefanaconi che ha resistito ai vari terremoti ma non all'ottusità di un sindaco e che viene abbattuta. Assieme ai suoi giochi preferiti.

Per Luigia Stricagnolo, Crotone è una buccia di mandarino bruciata nel braciere. Oppure è un litigio la cui durata è marcata dalla presenza di una scopa fuori dell'uscio.

A Nicotera prevale l'olfatto. Per Agostino Mercuri, Nicotera e più in generale la città vecchia è tutta nella sapienza del fiuto. Mentre gli uomini delle città anonime fanno confusione, fraintendono persino gli odori. L'unico fiuto che gli resta, a volte, è quello degli affari.

Per Francesco Pagnotta dalle case basse promana l'odore della muffa-

Per Carmela Rodolico è - oggi- fetore di aggiughe salate, di scatole vuote, di frutta marcia.

A Cosenza Anna Salfi ripercorrerebbe volentieri - e lo fa mentalmente - i pochi metri “molto diversi”di un tragitto: quello che a Cosenza collega piazza dei Valdesi alla piazzetta dei pesci.

Per Marilena De Bonis, Cosenza vecchia è un cartello che prescrive "vetture al passo". Una quiete turbata dalle onduline di plastica.

Rosaria Vecchio ricorda invece i vecchi curvi sulla soglia e l'odore dello zucchero filato alla fiera di S.Giuseppe.

Ada Tucci s'interroga sulla vocazione di grandezza, nella dimensione fisica e nella portata simbolica. Saprà ritrovarla, sarà con o senza tesoro?

Anna Giannicola continua a vivere questa parte della città. Intrattiene con essa una relazione di reciprocità: è l'unica parte di città riconoscibile e dotata di identità, ed è - Anna - riconosciuta da essa, dalla gente che la abita.

Maria Errico inscena un dubbio: sarà o non sarà la sua città. Odore di muffa e di bagnato, gatti grossi troppo grassi per la miseria dei bassi. Scale, tante scale, bagnate di pioggia: come faranno le donne col pancione a non scivolare?

Teresa Coscarelli ricorda il peso dei vocabolari per Corso Telesio e la storia d'amore dei nonni vissuta dalla finestra delle loro case. Una di fronte all'altra.

Marialuigia Campolongo ricorda Permesso, Popoì e Biki-biki. I personaggi della sua città, vissuta a piedi, senza rumori eppure così sonora. Una città che può stare benissimo dentro un foglio protocollo o in un quaderno dell'antica cartoleria Scornaienchi.

 Su tanta intelligenza poetica mi asterrò da qualsiasi commento.

E' di Benjamin la distinzione tra l'ottica con cui una città è vista da uno straniero e da un nativo del luogo: mentre lo straniero ha una visione prevalentemente spaziale, il nativo ne ha una visione soprattutto temporale. Le mappe e ancor più le osservazioni ad esse connesse s'inscrivono in una topografia culturale, "presuppongono un viaggio della mente e un'idea di spazio che, di epoca in epoca, accrescono le possibilità spirituali non solo di chi guarda l'oggetto città, ma dell'oggetto guardato; non solo di chi pensa, ma dell'oggetto pensato" (Maria Corti).

Mi viene poi in soccorso Cesare Pavese, per il quale il paese, il pavese, non è un'entità topografica ma topologica: il luogo in quanto mitico. Il luogo è una funzione logica da segnare con la A maiuscola, quella dell'altro. "Tale il mio paese, tale io". Ogni paese è il paese che mi pare e il paese che mi appare è mobile, straniante, sempre diverso. Ripensandolo posso turbarlo, posso modificarlo. Allo stesso modo di come posso modificare il passato (è l'ipotesi freudiana). Le strade di casa sono sempre diverse: per questo non si danno radici. Il paese non è un luogo fondante, l'infanzia non è un tempo fondante, ma semplicemente il tempo e il luogo che sono stati più alterati, modificati, interpretati. Ecco perché si tratta di questioni così importanti per il soggetto. Abbiamo accertato da tempo l'esplosione dello spazio urbano, che ha perso ogni riconoscibilità per diventare un territorio "desertico", non codificato, in cui si esercita un potere privo di ogni legittimazione. Le conseguenze per i soggetti sono evidenti: si è costretti ad essere onnipresenti, ad assumere la velocità come principio politico – scriveva già nel 1977 Paul Virilio - per non essere dimenticati. Un tempo le rivolte si praticavano contro l'assoggettamento, contro la costrizione all'immobilità. Nessuno avrebbe supposto che la conquista della libertà di andare e venire cara a Montaigne, sarebbe divenuta per un gioco di prestigio costrizione alla mobilità. Ci ritroviamo così tutti dromomani, parola che un tempo era riferita ai disertori o - nella nosografia psichiatrica - alla mania deambulatoria.

 Per tutto ciò e per altro, quando parliamo di nomi, di luoghi (c’è del luogo nel nome, c’è del nome nel luogo), di cose comuni, occorrerebbe un po' più di pensosità. Ritengo infatti sia ragionevole la supposizione che le statue non parlino deliberatamente. Tacciono, e basta.

 


 

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