giovedì 11 maggio 2023

Talvin - Numero Zero - Cosenza, 1980

 


                            Raffaele De Luca


"I surrender": rinuncia, resa, abbandono...

 

"sappi che mi arrendo"



That night I crossed the bridge of sighs and I surrendered

Quella notte ho attraversato il ponte dei sospiri e mi sono arreso


I looked back and glimpsed the outline of a boy

Mi sono guardato indietro e ho intravisto il profilo di un ragazzo


His life of sorrows now collapsing into joy

La sua vita di dolore ora sprofonda nella gioia


And tonight the stars are all aligned and I surrender

E stanotte le stelle sono tutte allineate e mi arrendo


My mother cries beneath a southern sky and I surrender

Mia madre piange sotto un cielo del sud e io mi arrendo


Recording angels and the poets of the night

Registrando gli angeli e i poeti della notte


Bring back the trophies of the battles that we fight

Riporta i trofei delle battaglie che combattiamo


Searchlights fill the open skies and I surrender

I fari riempiono i cieli aperti e mi arrendo


Outrageous cries of love have called you back

Oltraggiose grida d'amore ti hanno richiamato


Derailed the trains of thought, demolished wayward tracks

Deragliato il treno dei pensieri, demolito i binari di corsa


You tell me I've no need to wonder why I just surrender

Mi dici che non ho bisogno di chiedermi perché mi arrendo


Marc Ribot : guitar

Ryuichi Sakamoto : rhodes

Lawrence Feldman : flute

Steve Jansen : percussion

Kenny Wheeler : flugelhorn/ (flicorno)

David Sylvian : guitar loops, keyboards, sample

strings arrangement : Ryuichi Sakamoto, David Sylvian

orchestrated by : Ryuichi Sakamoto

contains a sample from : You Know You Know


martedì 11 aprile 2023

Duonnu Pantu e il monsignore

 https://icalabresi.it/cultura/duonnu-pantu-arcivescovo-prete-porno-contro-potere/

di Saverio Paletta, 

3 gennaio 2023


https://www.treccani.it/enciclopedia/gennaro-sanfelice_%28Dizionario-Biografico%29/



WDI

27 ott 2016






Dissertazione sulla poesia erotica

Dissertazione sulla poesia erotica

di Dante Maffìa




Quando alcuni mesi fa concordai l’argomento con Cinzia Demi rimasi perplesso per alcuni giorni, preoccupato di non trovare materiale necessario per una ricognizione esauriente. Cominciai a riguardare i libri degli scaffali, prendendo via via quelli che mi parevano attinenti, e alla fine della mattinata mi trovai sulla scrivania una tale quantità di testi, greci, latini, francesi, inglesi, italiani, che a quel punto la mia ansia, invece di placarsi, aumentava per ragioni diverse. Ero preoccupato, avevo difficoltà a pensare a una sintesi: troppe le sfaccettature dell’argomento, troppi gli autori, e molti inaspettati. Così, dunque, ho deciso di procedere. Ho cominciato a raccogliere i modi di dire e gli aforismi, o gli pseudo aforismi, ciò che circola più diffusamente: “Tutta la letteratura, in particolare la poesia, è frutto di erotismo”. Ricordo che Rafael Alberti lo ribadiva spesso negli incontri che andava facendo con i suoi lettori, e non per vezzo, ma credendoci fermamente, al punto che le sue poesie, a leggere bene, ne grondano, con allusioni e riferimenti diretti, con immagini decise e analogie spettacolari. Negli anni Settanta, in un piccolo saggio sulla poesia erotica, uscito sulla rivista “Il Vantaggio”, utilizzai come titolo un suo verso: “Girasoli i suoi seni”. Ma si dice altro: “Ogni poesia (non tutta la poesia) è frutto di un sogno condiviso con l’altra”; “La poesia è il fiore di eccitazioni furiose che trovano nella parola la sublimazione”; “Una poesia riuscita è un orgasmo perfetto, intenso, che rompe le coordinate celesti per ricomporle con maggiore ardore di libertà”; “La letteratura è il canto del desiderio erotico che trova la sintesi del divino nella stesura di narrazioni e folgorazioni che si fanno bellezza”. Potrei andare avanti, ma credo che finirei col divagare, perché l’argomento sfugge a catalogazioni precise, come ho appreso con certezza quando, circa venti anni fa, Luigi Reina, dell’Università di Salerno, propose a ventuno poeti di tradurre ventuno poeti erotici dal latino. Il libro si intitolava Veneri e priapi, io tradussi il Panormita con gaudente partecipazione: sentii che, come dice Emilio Cecchi in un indimenticabile articolo del 1948 su le “Parolacce”, le parole “traboccano di gioia e di energia, da sembrare che per loro mezzo si celebri una sorta di folle ed orgiastico battesimo della materia vitale”.

Per potermi orientare in mezzo a tanta ricchezza di testi ho cominciato a leggere o a rileggere focalizzando l’interesse non più soltanto sullo stile, sulla bellezza espressiva, sugli esiti letterari, ma tenendo conto dell’argomento e cercando di stabilire se ci fosse una qualche differenza tra erotismo e pornografia. Non mancano gli studi che ne discutono, come quello di Piero Lorenzoni, Erotismo e pornografia nella letteratura italiana, del 1976; come quello a cura di Silvia Vegetti Finzi, Storia delle passioni, con saggi illuminanti, anche se in maniera indiretta, tra gli altri di Sergio Moravia, di Antonio Prete, di Remo Bodei, del 1995; come quello di Alexandrian, Storia della letteratura erotica, del 1990; e non mancano le Antologie che danno conto del lungo percorso della letteratura erotica, con esempi molto belli e spesso intriganti. Ne ricordo qualcuna, Canti erotici dei primitivi, a cura di Alfonso M. di Nola; Lodi del corpo femminile, con una Introduzione di Giovanni Raboni; il già citato Veneri e Priapi, a cura di Luigi Reina; Antologia della poesia erotica contemporanea, uscita nel 2006; e l’insuperata Il fiore della poesia erotica, in cui troviamo traduzioni accurate e raffinate che presentano composizioni di Catullo, dei Carmina priapea, di Marziale, del Panormita, di Baudelaire, di Verlaine, di Gautier, e dove troviamo testi di Casti, di Aretino, di Baffo e di Berni. Tuttavia bisogna sempre discutere con arguzia, non dimenticando il fattore estetico. Il troppo carico e spinto, se non nasce da una necessità espressiva, dà l’idea d’essere capitati in un vecchio magazzino di preservativi rosicchiati dai topi o di essere entrati in uno di quei sexy-shop olandesi dove ci si può salvare dalla grossolanità e dalla trivilialità soltanto sorridendo. “Uno che se ne intendeva: Montaigne, e ci teneva a dir pane al pane e vino al vino, una volta osservò che ha voglia Marziale d’alzare le sottane a Venere fin sopra la testa. Egli non riesce a mostrarcela intiera, come altri poeti (Virgilio, Lucrezio) più discreti di lui”. 

Ma come raccordare tanta ricchezza di espressioni pur tenendo conto che “chi dice tutto ci satolla e disgusta”? Come dare la possibilità al lettore di entrare in un mondo davvero straordinario, affascinante, spesso irritante e scomodo,un mondo che non ha veli, che non riconosce nessun diritto ai divieti, che è libertà assoluta, vita viva e vera, densa e piena, “poesia finalmente libera dalle pastoie del consueto”? Impossibile, se non facendo un parziale elenco di nomi e poi offrendo qualche esempio, senza trascurare i poeti dialettali che hanno sempre avuto un ruolo significativo nelle trasgressioni, da Duonnu Pantu, prete calabrese che pubblicò tre poemi intitolati La cazzeideLa culeide e La cunnedide, a Giuseppe Giochino Belli i cui sonetti sono irripetibili momenti di pienezza di vita, a Ferdinando Russo, a Salvatore Di Giacomo, Carlo Porta, Domenico Tempio… e tanti altri. Per tornare alla lingua italiana, non manca quasi nessuno dell’intera letteratura, a conferma delle affermazioni che tutta la letteratura è erotismo, sete di lussuria, pornografia che però non deve mai scadere nella sconcezza, nella volgarità, nella futilità gratuita. Tralascio la narrativa, perché se cominciassimo ad analizzare Petronio e poi, giù giù, passando per Boccaccio, per l’Aretino e per il Machiavelli, non finiremmo più di fare commenti di ogni genere, soprattutto per quanto concerne il modo di esprimersi nelle varie epoche che, sia detto a chiare lettere, non furono mai bigotte o chiuse a nessuna esperienza, se addirittura Papa Sisto concesse ai cardinali di godere dei fanciulli “nei mesi più caldi”. Ci sono romanzi erotici, o se volete chiamateli spinti, ispirati al sesso e alle passioni umane, che meriterebebro una grande attenzione. Un esempio è Suor Monika, attribuito a Hoffmann. Nel 1979 è stato ripubblicato con un saggio introduttivo di Claudio Magris che, citando Bataille, afferma “l’eliminazione di ogni differenza fra soggetto e oggetto” nel libro; ma non mancano gli esempi recenti, italiani e stranieri, quelli di Miller, di Pauline Réage, di Valerie Tasso, di Salwa Al-Neimi (meravigliosi testi Il libro dei segreti e La prova del miele), di Annie Ernaux. Non parliamo dei classici, da Il giardino profumato a I gioielli indiscreti, a Justine, a Fanny Hill, a L’amante di Lady Chatterley, a Lolita, a I peccati di Peyton PlaceAnche in questo caso l’elenco sarebbe infinito, e devo sottolineare che spesso l’erotismo più acceso arriva da pagine apparentemente “caste” nelle quali non si consumano atti sessuali, ma appena carezze, sguardi e baci, come ne L’amore di Mitia di Ivan Bunin, oppure da invenzioni eclatanti come avviene, per fare un esempio, in Mangiami dell’australiana Linda Jaivin.

Restiamo dunque alla poesia, che da subito ha fatto sentire il desiderio come fonte insaziabile di parole; ascoltiamo come perennemente abbia testimoniato l’incontro d’amore, e lo abbia descritto dettagliandone i momenti, il ritmo, la bellezza, l’abbandono, il segreto, la fuggevolezza, in tutti i tempi. Ascoltiamo la voce di alcuni poeti scelti senza un preciso criterio, forse soltanto seguendo il filo della scherzosità o della sensualità più spudorata. Gli effetti non sono sempre suggestivi ma ci dicono, in coro, che se la vita nasce da un atto sessuale anche la poesia viene da lì, perché la poesia è vita, sintesi di vita, amore, scambio di saliva, di corpi, di anime, con eccessi e languidezza, con effusioni e perdita totale del proprio essere. La parola dei poeti non ha fatto altro che testimoniare l’amore che si rinnova, che ci fa sentire vivi al centro dell’universo, pieni di voglia pazza di unirci agli altri corpi. In Così parlò Zarathustra Nietzsche afferma: “Corpo io sono in tutto e per tutto, e null’altro”. Io dico che della mia donna ho goduto sempre la sua anima perché ne ho saputo individuare la sua fisicità, il suo sesso. Perché l’anima ha il sesso più dolce e più meraviglioso che si possa immaginare. Ma è un privilegio dei poeti. Lasciate ai poeti almeno questo privilegio. Gli altri privilegi vadano tutti ai politici e ai mercanti. Soprattutto ai mercanti di sillabe.

Un’annotazione finale: ci sono stati dei momenti in cui la letteratura erotica è diventata centrale negli interessi di alcune case editrici. Recentemente Einaudi, con la collana “Stile libero” e con opere come quella di Virginie Despentes intitolata Scopami; ma non si dimentichi che circa cinquant’anni fa a Roma fu fondata una casa editrice che si chiamava Eros. Era al numero 49 di Via Monteverde. Pubblicava solo libri erotici.

Dante Maffìa

2 dicembre 2016

https://ediletteraria.wordpress.com/2016/12/02/dissertazione-sulla-poesia-erotica-di-dante-maffia/

lunedì 10 aprile 2023

Figuriamoci con la Meloni e e il Ministro Sangiuliano!

 

                    Giuseppe Leone

 

Warriors in furs:

Gerald Bruneau tra diritto e opere d’arte

 

 

Relatore: prof. Renato Rolli

 

 

 

Università della Calabria

Corso di laurea in Scienze Turistiche

AA 2015-2016





0.        INTRODUZIONE



 

Nonostante ciò che si possa credere, arte e diritto sono intimamente legate. Non bisogna quindi soffermarsi a pensare al Diritto come un qualcosa di infinitamente astratto, richiuso in un libro che solo gli avvocati, giudici e burocrati sono in grado di aprire. Il Diritto, in tutte le sue accezioni, coinvolge la vita privata e pubblica del cittadino, aiuta a regolamentare ogni evenienza che possa risultare sgradevole ad esso, o illegale in qualsiasi modo, così da poter aiutare chi di dovere a far valere la legge. Questa è la definizione più generica che si possa dare al Diritto, ma non per questo meno rilevante. Per quanto riguarda l’arte, essa non ha bisogno di spiegazioni: viverla, fruirne in modo consono, è un diritto e, perché no, un dovere del cittadino.

Il lavoro che tenterò di portare avanti sarà quello di mostrare l’unione che c’è fra l’opera d’arte e il diritto, di far vedere come essi siano così legati da diventare persino un caso mediatico nel momento in cui il lavoro del diritto entra in conflitto con il mondo dell’arte. Per cercare di esporre al meglio l’argomento, la mia intenzione sarà quella di partire da Gerald Bruneau, un importante artista/fotografo contemporaneo, raccontando brevemente della sua biografia e concentrando l’attenzione sulle opere definite come controverse e provocatorie, in particolar modo su un’opera a noi molto vicina: i Bronzi di Riace. Questo ci darà lo spunto per entrare nel vivo della questione arte-diritto: nel secondo capitolo, dopo alcuni cenni storici sulle statue e la loro provenienza, si passerà all’analisi dell’opera Warriors in furs, dove i protagonisti sono proprio i Bronzi di Riace, e le implicazioni che ha avuto in ambito giuridico questo caso. Saranno presi in esame il codice dei Beni Culturali e del Paesaggio, proprio per riuscire a districare al meglio questo enigma mediatico. Come retroterra dell’elaborato vi è questa domanda: i provvedimenti che sono stati applicati nei confronti dell’opera di Gerald Bruneau dalla pubblica amministrazione, sono giusti o sbagliati? Dettati dalla voglia di far rispettare le procedure o dalla banale e svilente censura della provocazione per motivi socio-politici? Senza alcuna pretesa di esaustività o verità assoluta, si tenterà di dare una risposta a questa domanda, grazie anche al terzo ed ultimo capitolo dell’elaborato dove si analizzeranno i possibili precedenti e casi simili a ciò che abbiamo trattato, contestualizzandoli con ciò che abbiamo evinto dal secondo capitolo. (...)



 


 

Lasciamo che sia lo stesso Bruneau a raccontare l’accaduto.

“La Soprintendente Bonomi ammette di aver invitato me e altri fotografi stranieri in occasione dello shooting “ufficiale” di Mimmo Jodice, per rilanciare nel mondo la presenza dei quasi dimenticati Bronzi, appena tornati nel Museo, e dopo una cena conviviale dove abbiamo parlato dello spirito di questa operazione, ognuno dei fotografi “non ufficiali” con il suo stile ha cercato di interpretare l’invito della Soprintendenza a diffondere il ritorno pubblico dei due guerrieri ellenici. (…) In più, la Soprintendente dice di aver apprezzato la mia fotografia al Guerriero A, detto il Giovane, ornato di un velo da sposa, che le ricordava la bellezza delle mie foto fatte a Paolina Borghese”. 



Antonio Canova scolpisce Paolina Borghese Bonaparte come Venere vincitrice, tra il 1805 e il 1808. 

La scultura in marmo è esposta alla Galleria Borghese di Roma.



Gerald Bruneau, "Paolina in vetrina" (Takeaway Gallery 2013)

(…), seguendo la mia intuizione artistica, ho pensato di passare dai simboli della purezza transgender (un velo da sposa su un guerriero simbolo della virilità), a quelli del gusto Camp e Kitsch della contemporaneità: un tanga, un boa fucsia. Che non avevo portato da casa mia, ma acquistato lì per lì a pochi isolati dal Museo, e che con solerzia erano stati vagliati, esaminati e sottoposti ad opportuna disinfezione, per evitare qualsiasi "contaminazione" che potesse nuocere ai Bronzi.

Nonostante tutto, i miei scatti, si sostiene, non sarebbero stati autorizzati, perché a differenza del velo, si trattava di oggetti orribili. Non puri come un velo, non così allusivi. Indifendibili”[1].

La versione dell’irata soprintendente Bonomi di fatto coincide:

- Ma davvero l’artista non era autorizzato da lei?

- «Certo che no. Era febbraio. I fotografi me li aveva mandati la Regione Calabria e lui mi ha chiesto se poteva usare il velo bianco. Avevo visto la sua foto di Paolina Borghese avvolta nel drappo rosso e mi era piaciuta. Poi però ci ha messo il perizoma e il boa fucsia, appena l’ho saputo lo abbiamo bloccato e cacciato via».

- Ma le foto le aveva già fatte.

«Sì, forse mentre mi venivano a chiamare. Altro che foto, una schifezza. La prima che mi ha fatto vedere era piaciuta anche a me, le altre sono semplicemente disgustose». (…)

- Però ai Bronzi ha fatto un bel po’ di pubblicità, no?

«La pubblicità l’ha fatta a se stesso. Non escludo che il museo gli chieda i diritti e pure un risarcimento».[2]

Il critico d’arte Barbara Martusciello, che ha puntualmente seguito la vicenda, prende posizione così: “Anarchicamente, questa è arte politica. Infatti, Gerard ha provato a dare voce ai due guerrieri tramite un inno guascone (e guastatore) all’allegria e alla differenza, tentando di “capire cosa significhino oggi e per chi”, sia “cercando di non insultarli nel mummificarli più di quanto non siano già stati”, sia di “farli parlare facendone parlare”, riconsegnandoli “a un immaginario collettivo: al di là del loro decretato ergastolo museale. (…) non sarà un bagno nell’estetica Queer a danneggiarli. La lesa maestà di cui si accusa Gerard Bruneau nasconde, invece, uno sdegno conservatore (meglio usare un più efficace sinonimo: reazionario) per la lesa virilità maschia, etero dei Bronzi e, dunque, uno svelamento di arretratezza sociale, etica, culturale: di un Paese dove “si fa ma ancora non si dice”, di “scherza coi Fanti, lascia stare i Santi”, dimenticati di Pax e Dico e dei diritti dei LGBTQ.[3]

Posizione pure condivisa da Guia Soncini: “… è noiosissimo farne sempre una questione di generi sessuali, però perché la Paolina sì e i Bronzi no? Non sarà mica lesa virilità molto prima che lesa opera artistica? (…) Il dubbio viene perché non ci vuole uno storico dell'arte per sapere che l'alterazione dell'opera d'arte esistente che la renda un'opera d'arte nuova non è esattamente una trovata rivoluzionaria d'un fotografo teppista nel 2014. Dai baffi fatti da Duchamp alla Gioconda al Pont Neuf o a Porta Pinciana imballati da Christo e Jeanne-Claude: gli esempi sono parecchi e non esattamente di nicchia. Non ci vuole uno storico dell'arte, per capire l'intenzione del gesto, ma forse neanche una soprintendente ai beni artistici (…) Certo, però, nessuna di queste opere includeva una svirilizzazione. Un accessorio effeminato su un soggetto d'opera maschio. Un costume da donna addosso a un uomo, come fossimo in un volgare e superficiale film di Billy Wilder invece che in un contesto serio e rispettabile e davvero artistico”[4].

Vediamo i termini, in qualche modo canonici, della questione. Se Bruneau parla di “gusto Camp e Kitsch”, Martusciello introduce il sintagma “estetica Queer”, termine-ombrello reso popolare dal gruppo di attivisti inglesi Queer Nation negli anni ’90, che non è sinonimo di LGBT (Lesbian Gay Bisex Transgender), ma che è usato da coloro che sono politicamente attivi, da chi rifiuta con forza le tradizionali identità di genere, le categorie dell'orientamento sessuale come gay, lesbica, bisessuale ed eterosessuale, da chi si rappresenta e percepisce come oppresso dall'etero-normatività prevalente nella cultura e nella società o dalle persone eterosessuali. “Queer” va evidentemente a complicare la complessa articolazione

Pop – Kitsch – Trash – Camp

che supponiamo particolarmente scivolosa per l’appassionata Soprintendente Bonomi. Si tratta infine di generi artistici di cui certamente può tracciarsi una genealogia o – se preferiamo – una archeologia, individuarne i tratti distintivi, i confini e le dinamiche intertestuali, ma che finiscono col cortocircuitare nel gender (nel senso di Gender studies).

“Il trash in sé non esiste. È solo un'apparenza che si rivela quando qualcuno vuole negarlo. Il trash in sé non esiste. Non esiste nulla che sia trash, come non esiste nulla che sia aulico. Il trash in sé non esiste. Siamo noi che lo creiamo ogni volta che ce ne chiamiamo fuori”[5]. Senza dimenticare le questioni legate all’esemplarità, all’originale e alle copie, alla riproducibilità. In fondo le foto di Bruneau, anche se sul versante opposto a quello di Iodice, produce copie, simulacri, reinvenzioni stranianti.

“Originale e copia, modello ed esemplari, archetipo e riproduzioni, unicità e serialità, prototipo e multipli. La storia della tradizione occidentale continuamente scarta dal binario della ripetizione di un'esemplarità auratica, astratta e assoluta, dell'antico. Continuamente e da sempre – fin dalle sue origini – smentisce l'idea di una inimitabile (irripetibile e non riproducibile) unicità, si discosta da una, sacra e intangibile, staticità. Serialità, portatilità: i classici sono, fin dalle origini, riproducibili in serie e si prestano anche a essere ridotti di scala, fino a diventare 'portatili'. Ma quali sono i principi teorici e le procedure tecniche che conducono dall'originale alla sua imitazione, riproduzione, ripresa? Recensio, collatio, emendatio, editio; ricognizione, valutazione e messa a confronto dei modelli esistenti, selezione e produzione. Come già indicavamo nel testo introduttivo de L'originale assente, lessico e procedura delle operazioni che portano alla riproduzione (e in genere alla produzione dell'opera d'arte) richiamano le mosse della operazione filologica[6].

“Accanto al David di Michelangelo, alla Torre di Pisa, a Paolina Borghese di Canova, il Discobolo di Mirone – riprodotto in miniatura, nelle versioni in polvere di marmo o in gesso – oggi campeggia sulle tante bancarelle di souvenir di Roma (e d'Italia!), vera e propria icona pop dell'idea – plurivoca – di 'classico'. (…) le statuette kitsch per turisti (in serie e portatili insieme) si possono forse considerare eredi legittime delle tante copie romane del capolavoro di Mirone, che la mostra espone e confronta icasticamente. All'annichilimento dell'originale fa da contrappunto la proliferazione delle copie[7].

Un altro punctum ci viene suggerito da Julia Kristeva: “(…) e si tratta di un mio partito preso, che l’immagine è forse l’unico legame che ci resta con il sacro”[8].

In un testo precedente, sempre Kristeva inquadrava così la spinosa questione: “C’è nell’abiezione una di quelle violente e oscure rivolte dell’essere contro ciò che lo minaccia e che gli pare venga da un fuori o un dentro esorbitante, gettato a lato del possibile, del tollerabile, del pensabile. Vicinissimo ma inassimilabile. Qualcosa sollecita, inquieta, affascina il desiderio che pure non si lascia sedurre. Ma impaurito si distoglie. Nauseato rigetta”. [9]

Bruneau in conclusione, non importa se con un paradigma pop (dal quale proviene), kitsch, trash o camp, a giudicare dagli effetti, compie un'azione sacrilega. Sempre Kristeva evoca come territorio più vicino il disgusto per il cibo: quello “per gli alimenti è forse la forma più elementare e più arcaica dell’abiezione (…) spasmi e vomito che mi proteggono, repulsione e conati che mi allontanano e mi distolgono dalla sozzura, dalla cloaca, dall’immondo.”[10]

S’intende il disgusto per la brutta sorpresa della Soprintendente, ma potrà mai un tribunale dirimere una questione del genere?



Jacques-Louis David, Madame Récamier  (1800)

René Magritte, Prospettiva I: Madame Récamier di David (1951)



(...)

[1] La replica di Gerald Bruneau, in http://www.dagospia.com/rubrica-2/media_e_tv/soprintendente-museo-reggio-calabria-bruneau-prendo-82285.htm

[2] I BRONZI COL BOA FUCSIA UNA PORCATA, IO INCASTRATA”, intervista a Simonetta Bonomi, di Giuseppe Baldessarro,“La Repubblica”, 4 agosto 2014 http://www.repubblica.it/cronaca/2014/08/04/news/bonomi_i_bronzi_col_boa_fucsia_una_porcata_io_incastrata-93097479/

[3] Barbara Martusciello, Perché parlarne ancora. (op.cit.)

[4] Guia Soncini, Chi ha paura del velo e del tanga sui bronzi di Riace, in “la Repubblica.it”, 3 agosto 2014

[5] Tommaso Labranca, Andy Warhol era un coatto. Vivere e capire il trash, Castelvecchi, 1994.

[6] Monica Centanni, Originale Assente: il paradigma filologico in una proposta in stile corsaro, in ‘Engramma’,  n.129, settembre 2015

[7] Serial/Portable Classic, Stanze e Percorsi Galleria degli allestimenti di Milano e Venezia, a cura di Giulia Bordignon e Fabio Lo Piparo, in “Engramma”, n.129, settembre 2015

[8] Julia Kristeva, La testa senza il corpo. Il viso e l’invisibile nell’immaginario dell’Occidente, Donzelli, 2009 (1998), pag.3

[9] Julia Kristeva, Poteri dell’orrore. Saggio sull’abiezione, Spirali, 1981 (Seuil, 1980), pag. 3

[10] Julia Kristeva, Poteri dell’orrore, op.cit. pag.4


https://www.gaypost.it/preside-gay-scritta-muri-liceo



“Tout-court”


Daniele Gambarara per “Audiobox”, di Pinotto Fava, Radiouno 
a cura di Massimo Celani, Sabina Sacchi e Paola Scalercio.

 

 “Curti e malucavati”

 

Se proviamo a digitare “corto” su Google ci imbattiamo in 336.000 occorrenze (se ne sottraggano un centinaio dedicate a Corto Maltese) mentre quelle di “lungo” sono 1.560.000 (si sottraggano almeno quelle relative a Alberto Del Lungo).

Digitando “curto” se ne contano 324.000, ma a queste – in verità – occorrerebbe sottrarre i vari Jeffrey, Joe, Raul, Manuel, etc., che di cognome fanno “Curto”. La ricerca di “curti e malucavàti” non produce risultato alcuno. Sul web.

Ma ne conosciamo di persona almeno un paio.

 

L’utilità di quel che non c’è

 

Trenta raggi formano la ruota di un carro ma è il vuoto che ne determina l’uso.

Quel che esiste è utile, ma l’indispensabile è quello che non c’è.

La musica di Erik Satie, ad esempio, è utile per tutto quello che non vi si trova.


 

“Tout-court”

Espressione difficilmente traducibile (tant’è che le occorrenze sui siti web italiani erano 22.800, oggi saliti a 412.000.000). Letteralmente: tutto corto, di volta in volta sta a significare “direttamente”, “propriamente”, “esattamente”, “completamente”, con perentoria concisione.

“Quel che è esatto è breve” (Joseph Joubert).  La pubblicità è proprio questo. Tout court.

 

 

Il breve è cosa antica

(intervista a Daniele Gambarara)

 

“L’opposizione tra lunghezza e brevità si trova esplicitata in Platone. Socrate incontrando Gorgia e Protagora li prende un po’ in giro. Sa che sono entrambi capaci sia di lunghi discorsi (macrologia) sia di brevi discorsi (brachilogia), ma li prega di attenersi a quest’ultima perché gli affari non gli consentono molto tempo. La preferenza di Socrate per la brachilogia, per il breve discorso, è una preferenza per la possibilità d’intervento. La conferenza respinge nel tempo al più tardi l’interlocutore, mentre lo scambio veloce, l’interazione dialogica, gli da la possibilità d’intervenire in ogni momento e su ogni punto.

Chi voglia quindi difendere un punto debole avrà interesse a inserirlo in una serie di argomenti, altri dei quali attirino l’attenzione, a porli globalmente nel loro insieme, non fosse altro che per l’insidia della stanchezza e della memoria a tempo breve, l’ascoltatore abbia poi difficoltà a reintervenire su tutti i punti su cui avrebbe obiezioni e contro-argomenti”.

Dunque il breve è cosa antica. Breve è democratico”.

 

 

Il farsi breve di colui che è eterno

 

(Pino Stancari S. J.  per Audiobox, Radiouno, a cura di Pinotto Fava, Sabina Sacchi, Paola Scalercio,

RAI sede regionale della Calabria, 1986, a cura Massimo Celani)

 

“Il figlio di Dio – Gesù Cristo – fu il sì, dice S. Paolo. L’amen. L’amen eterno. Una vita spiritualmente condotta è una vita che coincide col sì detto una volta per tutte da Cristo – figlio di Dio – al Padre. L’incarnazione del figlio di Dio è il farsi piccolo di colui che è grande, il farsi breve di colui che è eterno. Senza rinunciare alla grandezza e alla eternità. Lo spazio e il tempo sono visitati dalla presenza incontenibile. Il mistero è esattamente piccolezza dell’incontenibile”.

 

Questo testo, dalla sera della registrazione nell'inverno del 1986, uso ricordarlo praticamente a memoria e la dice lunga sulla mia devozione nei confronti di Padre Pino Stancari. Era quasi mezzanotte ed eravamo nella Casa del Gelso, la sua piccola casa/chiesa, dove mai ero stato. Lui - puntuale - arrivò con la lambretta, diede un'occhiata a un librone (giuro che non era in greco antico: lo avrei riconosciuto) e mi fece segno di accendere il registratore. In RAI, per le riprese audio, eravamo tutti attrezzati con i costosissimi Nagra. Ricordo che quella conversazione durò non più di 3 minuti (pur essendo preceduta dalle mie paranoie di "rischio di conferenza"). Insomma, fu una lezione di brevitas pubblicitaria. Indimenticabile.

venerdì 20 gennaio 2023

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(da oraesatta a cronache delle calabrie)