sabato 4 maggio 2019

Come mai


Come mai all'improvviso Antonio Schiavelli?

"Il mondo esiste perché il libro esiste; 
perché esistere è crescere con il proprio nome" .
Edmond Jabès, I, 25

"Segni e rughe sono domande e risposte d'uno stesso inchiostro".
E. J. Edifico la mia dimora,  I, 23

"Segna con una traccia rossa la prima pagina del libro,
perché la ferita è invisibile al suo inizio".
Reb Alcé, I, 7




Indice


introduzione? feat. Alessandro Chidichimo


0. I FILE DIMENTICATI
Un progetto di libro

1. LO SPAZIO PARLA.
C'era una volta la prossemica.

2. GLI AGRIMENSORI DELLA COMUNICAZIONE.
Pragmatica della distanza umana.

3. TRANSITOLOGIE DEL TESTO.
Distanze intertestuali.

4. L'EXOTE E L'EMIGRANTE.
Distanze reali, simboliche e immaginarie.

5. IL PAESE CHE MI PARE.
La distanza nell'Erlebnis dell'emigrato.

6. ARU RISCUORDU.
La distanza e la memoria.

7. VERDIGLIONE LONTANO DA CAULONIA.
Le origini della distanza e la distanza dalle origini.

8. COME MAI ALL'IMPROVVISO TUTTE QUESTE RUGHE.
Fotografie della distanza.

9. SEGNI PER L'AVVENIRE.
La distanza e l'antico.

10. FORMA PERENNE.
La distanza e la classicità.

11. FUGA E ATTACCO: DINAMICA POETICA.
La distanza del linguaggio poetico.

12. INTERVALLO
Galeazzo di Tarsia, Paul Klee, Ida Vitale, Edmond Jabès.

13. "I DISTANTI"       
Figure della presa di distanza.

14. INTERTESTUALITA' E INTRASOGGETTIVITA'.   
Luci della distanza.

15. LA TERRA VISTA DALLA LUNA.     
Punti di vista, grandezze, gradi zero.

16. GLI ABITANTI DELLA DISTANZA.
Breve viaggio tra gli antichi.

17. CONTRO L'EMPATIA.
Catalogo provvisorio: Sigmund Freud.

18. IL SAPERE CONTRO LA CONOSCENZA.
Catalogo provvisorio: Jacques Lacan.

19. IL PATHOS DELLA DISTANZA E LA DISTANZA DAL PATHOS.
Catalogo provvisorio: F. Nietzsche.

20. COL DOVUTO RIMBALZO.
Catalogo provvisorio: Carlo Sini.

21. INCONTRI MANCATI.
Nietzsche, Freud, Schnitzler, Jensen, Rolland, Lacan.

22. UN DIO LONTANO.
Simone Weil.

23. UNA SERENA IRONIA.
Roland Barthes.

24. LA METAFORA ACCORCIA LE DISTANZE
Paul Ricoeur, Hans Blumenberg.

25. IL COMPROMESSO LOGICO.
Elvio Fachinelli: tempo e spazio logici.

26. IRONICI, NEOCINICI, SAPIENTI.
Nuove adesioni al partito della distanza.




A sinistra la foto di Paul Strand scattata nel 1955 a Luzzara.
A destra la stessa persona fotografata vent'anni dopo da Gianni Berengo Gardin.

Cesare Zavattini e Paul Strand, Un paese, Einaudi, 1955
Cesare Zavattini e Gianni Berengo Gardin, Un paese vent'anni dopo, Einaudi, 1976


Come mai all'improvviso tutte queste rughe?


0. I file dimenticati
Un progetto di libro



Da qualche anno ho la chiara percezione di invecchiare. E se non sono comparse vere e proprie rughe, sono arrivati i capelli bianchi e gli occhiali. Ecco, potrei dire: come mai all’improvviso tutti questi occhiali? Da qualche anno sono diventato l’agrimensore di una distanza: quella dalla lente destra a quella sinistra. Superati i cinquant’anni, misuro la distanza tra le rughe che non ho. Almeno all’esterno.

Assemblo oggi, come se fosse un libro, testi che mi hanno tenuto compagnia dal 1990 al 1993, file dimenticati che mi hanno a lungo guardato dal desktop. Più altri sperduti, schierati in bell’ordine in qualche directory, che invocavano un “clicca su di me”, “no su di me”. Così riportandoli alla luce diurna, quella del foglio, al fine di strapparli al buio dell’hard disk, rendo loro giustizia come se fossero testi rinchiusi in una cella buia (“giacere nel cassetto” in questi nostri tempi digitali non si può più dire). Oppure, scenario forse più probabile, rendendoli disponibili con un e-book o con altro tipo di collegamento telematico, comunque consentendogli una mezz’ora d’aria (che è più o meno il tempo occorrente per una scorsa veloce come per una passeggiata al guinzaglio). Così confessando un punto di partenza claustrofobico.
Questo per dire che si tratta di tracce, di spunti, di fili, senza fantasmi di autoconsistenza o di esaustività, che altri mi auguro raccoglieranno.
Harold Bloom diceva che la letteratura è fatta da interpoeti. Chi scrive la prefazione è uno di questi. Soprattutto per lui e per qualche altro talentuoso come lui ho preparato questo quaderno d’appunti.

PS

Come mai all’improvviso tutte queste rughe? 
La distanza da noi stessi

Il titolo l’ho rubato a Vincenzo Bonazza, il sottotitolo a Ettore Perrella.

Occorre pure ringraziare Salvatore Piermarini per le foto di Strand e Berengo Gardin, Gianmichele Candelise per le foto di Saverio Marra e di Marialba Russo, Fedele Paolo per avermi costantemente incoraggiato a pubblicare quei file dimenticati.

(Marzo 2008)


§ § §


Cosa è qui?
(...)
Questo per dire che in questo testo (un'antologia? un saggio? un ipertesto?) la questione telematica - o più in generale tecnologica - resta fuori sperando forse che sia il modo migliore di parlarne e di affermarne, nonostante tutto, la seduzione.
E’ omessa perché viene in qualche modo rappresentata, messa in scena: nel, modo, intertestuale e polifonico, che lo situa nei paraggi di un forum.
L'intento è di un'antologia o - meglio - di un florilegio che possa servire a una teoria della distanza prima di ogni telematica, ma anche prima di ogni nuova poetica, di una nuova epistemologia, di una nuova didattica. Soprattutto di quest'ultima mi piacerebbe sfatare la "fatale" interruzione del rapporto inter-soggettivo e il conseguente fantasma, che agita un po’ tutte le istituzioni che si occupano d'insegnamento a distanza, di "reintegrare le condizioni dell'atto educativo strutturalmente e fatalmente spezzato" (Desmond Keegan, Consorzio per l’Università a Distanza, 1989). Insomma, ovunque si guardi, questa contiguità, nella trasmissione del sapere come in altri campi, non la si trova mai. Del tutto, non si smette d'imbattersi in legami spezzati, in comunicazioni interrotte, in siderali distanze: costituendo, tutt'altro che un limite, veri e propri punti di forza. Ho così cercato di rintracciare un po’ di abitanti della distanza, senza pretese di esaustività e lasciando fuori da questa specie di repertorio Jean-Luc Marion, che si occupò della distanza nelle icone della divinità. Ci si è limitati a cercare di rimettere insieme un po’ di disiecta membra di pensieri d'altri. Con un montaggio che, mi piacerebbe avesse il sapientissimo background di un Ceronetti (ricordate il "suo" Il silenzio del corpo?), si limita a una parziale e arbitraria ritessitura di testi che a volte sfiora il metodo paranoico-critico di Dalì. Puro gioco d'intertestualità, dinamica di prossimità presenti e impensate lontananze e dei loro rispettivi capovolgimenti. Anche se traspare un certo amore per le distanze, sempre riconosciute, coltivate, a volte mantenute, mai del tutto azzerate; e - al contrario - un certo fastidio per il culto della prossimità, delle scorciatoie del tipo "diamoci del tu"; non si tratta propriamente di un'ipotesi forte che si direbbe già in partenza gratuita e debole, quanto di un modo - che si direbbe freudiano - di costruire attraverso, prendendo i testi per sintomi e soprattutto per amici. Esasperando la primaria virtù del vocabolo. Che è - come scrive Jabès - quella di aver legami. Ma senza troppo pathos: il vocabolo "legàmi" come si trattasse di giochi d'influenze, interdipendenze e surdeterminazioni, tra quartieri. Come se si trattasse di un'urbanistica senza troppe speculazioni.

 (Giugno 1993)

§ § §






1. LO SPAZIO PARLA

C'era una volta la prossemica

(...)









2. GLI AGRIMENSORI DELLA COMUNICAZIONE

(Pragmatica della distanza umana)


(...)

Ricorderei di passaggio, a mo’ di emblema, il film "clinico" di Aaron Esterson (1975) intitolato: "Lo spazio fra le parole: la famiglia". Al contrario della semplice ingiunzione contraddittoria, notano gli studiosi di Palo Alto, in cui si sceglie una alternativa e si perde o si patisce l'altra alternativa (ma si offre almeno la possibilità di una scelta logica), l'ingiunzione paradossale fa fallire la scelta stessa innescando una serie oscillante e autoperpetuantesi. L'ingiunzione paradossale è il cosiddetto doppio legame. Vale a dire una trappola. Come la si può evitare? Semplicemente, con mossa ex-centrica, ponendosi alla giusta distanza e dunque metacomunicando. Ponendosi cioè al di là della trappola e sviscerandone il meccanismo perverso. Notava Giovanni Vailati che per designare qualcosa del genere gli scolastici utilizzavano il termine exponibilia (sofismi già considerati negli Elenchi aristotelici) che consentiva loro, senza distinguere un linguaggio oggetto da un metalinguaggio, senza cioè l'equivoco mantenuto da Wittgenstein, Carnap e Tarski, di rifiutarsi di prendere in considerazione quei dilemmi riconosciuti come insussistenti ma non di certo come patogeni. “In principio era la retroazione”. È questo l'enunciato meta-ghoetiano del fronte dell'organizzazione, con l'armamentario sistemico tanto lontano dalla sottigliezza e dalla precisione di un Bacon: “Le parole, come l'arco dei tartari, colpiscono all'indietro sul nostro comprendere”; e il modello più che circolare sembra essere quello dello strep tease; a giudicare dalla passione per la demistificazione, per lo svelamento dell'inganno. Come accorgersi che una metacomunicazione deve supporre l'esistenza di una comunicazione piena che o non esiste o è terrorista? Suvvia, solo quando è un cane a ringhiare ad un altro cane possiamo star certi che si sono compresi. Impossibile intendere dunque il fatale spezzarsi della comunicazione e che non c'è metacomunicazione perché non c'è metalinguaggio. Sul linguaggio non si parla, come hanno abbondantemente dimostrato Lacan e Miller. Figurarsi poi che credito possono avere, in siffatto background, le complicazioni per cui “l'emittente riceve dal ricevente il proprio messaggio in forma invertita” o che il soggetto è costituito retroattivamente dagli effetti di significante o – peggio ancora - che proprio dal fraintendimento, vale a dire dai mille quotidiani pseudo-doppio legami, deriva la verità. Ma queste sono sottigliezze e sofismi, per chi è preso dalla fabbrica di prontuari per la sana comunicazione e per il realizzarsi dell'individuo.


Come Peirce sentì il bisogno di coniare il termine “pragmaticismo” per prendere le distanze (una prossemica della teoria?) dal pragmatismo divenuto nel frattempo meschinello e psicologistico, così occorrerebbe che gli sforzi analitici racchiusi in questo libro, forse ancora attuali, venissero considerati a prescindere di certe ideologie spacciate come presupposti teorici e soprattutto a prescindere dalle applicazioni cliniche (poi neanche tanto funzionanti - così per pura empiria - nei casi di anoressia). Mi riferisco a chi elegantemente è passato da una teoria “della famiglia che uccide” a una pratica di accomodamento rispetto alle proprie famiglie di origine. Insomma, la famiglia, sempre ipostatizzata, fa ammalare e fa guarire. E se non è un doppio legame questo!

Occorre aggiungere che il cuore della pragmatica ha al suo interno una valenza etica che, anche se strangolata da un “sarebbe bene che fosse” che si balocca fra una comunicazione buona e una cattiva, potrebbe rientrare nel progetto barthesiano di una teoria del linguaggio, “una metodologia che permetterebbe di aggiornare i processi di appropriazione della lingua e di studiare la proprietà dei mezzi di enunciazione, qualcosa come il Capitale della scienza linguistica”.

Diceva - se non sbaglio - Arpino che l'uomo è dato dalla somma delle parole che riesce onestamente a usare. Se aggiungiamo le complicazioni dovute alla constatazione che sono piuttosto le parole a usare il parlante, definito con somma precisione “parlessere” (parletre) da J. Lacan, e ci troviamo davanti a un'altra pragmatica, a un'altra teorica, a un'altra politica del linguaggio. Quali sono le onestà del discorso che, nelle vesti di effetti di significante, disonestano l'uomo fino a incatenarlo?






3.TRANSITOLOGIE DEI TESTI
(Distanze intertestuali)

A questo punto occorrerebbe passare a una disamina della prossimità destinatore/destinatario e subito dopo di quella intercorrente tra i testi. Più in dettaglio, ma solo come possibile diario di lavoro:
- la distanza tra significato e significante (“il significante è innanzitutto ciò che ha effetto di significato, ed importa non elidere il fatto che tra i due c'è qualcosa di sbarrato da oltrepassare” - J. Lacan, “A Jakobson”, Seminario del 19.12.72);
- la distanza interna al parallelismo secondo Greimas. Vale a dire se per caso si tratti di scudocrociate convergenze parallele la “co-occorrenza” del discorso fonetico e del discorso semantico in un testo;
- la distanza o comunque la non coincidenza tra enunciato e enunciazione;
- la distanza tra gli elementi interni al testo (intratestualità);
- la distanza (cioè gli sviluppi o gli arretramenti) tra i testi dello stesso autore (intertestualità interna);
- la distanza tra testi di autori differenti e di epoche differenti (intertestualità esterna);
- il campo d'interferenze tra testo e contesto, e via allargando lo spettro e la misura.
Così facendo questo scritto guadagnerebbe in rigore, specialismo e pedanteria. Nella esplorazione di tutti i tragitti, catturato da un fantasma di esaustività, e nella declinazione degli universi possibili centrati su di essa.
Costituendo, come se non bastasse, un ulteriore preambolo a quanto mi preme, non sostenere (ché non vi è nessuna ipotesi forte), ma fare. E cioè un notes poetico, un catalogo delle distanze e degli autori che vi hanno girato intorno, a volte consapevoli a volte no, a volte “fenotesto” a volte “genotesto”. Compiendo una traversata che cercherà di costituire un florilegio.

Mi accontenterò dunque di un discorso secondo, basato sul rispecchiamento, giacché il presente scritto non fa che accostare, tagliare, incollare, tracciar vettori tra testi differenti. Mi piacerebbe fosse sul calco di una topologia, ma -ahimè- non è così neutrale e matematico. Mette in gioco pure una faziosità, una reazione all'ideologia umanistica del “volémose bene”, dell'empatia e dell'azzeramento delle distanze. Mette in gioco pure una mensura. O meglio, due. La prima non riesce a sottrarsi alla constatazione che il pensiero di Freud e - per esempio - di un Bateson hanno portate (un altro vocabolo della distanza) diverse. La seconda, senza giudizio di grandezze, si limita a misurare, in termini di vicinanza/lontananza, autori testi e saperi che qualche sentinella universitaria vorrebbe ancora divisi da improbabili confini.

Dicevamo poc'anzi della distanza tra testi. O meglio - per fare un po’ di corpo - tra libri. In debito con le meravigliose biblioteche borgesiane, un'analogia viene in soccorso: se son lì tranquilli a toccarsi senza complessi, dorso a dorso, quarta e prima di copertina, accatastati in ordine sparso o ordinati in scaffale, vuol dire che l'incontro dei testi rispettivi non solo è possibile, quanto non smette di effettuarsi. Queneau in “Icaro involato” (Le vol d'Icare) ne rappresenta il colmo, con tutto quel fuggi fuggi di personaggi dai romanzi di un geloso gruppetto di scrittori. Un parapiglia esemplare di fughe, incontri, furti, influenze e rapimenti. Strada poi seguita da Woody Allen nella “Rosa purpurea del Cairo” e da Maurizio Nichetti in “Ladri di saponette” e poi in “Volere volare”. Certo c'è della ricorsività, c'è qualcosa di matematico in quelle strutture da fuori-spazio; e che si tratti di paradossi non sposta un granché, risultando alla fine del tutto trascurabile. Evidentemente nulla vieta che si scappi dalla cornice, dal genere, dal libro, dal film. Quel che conta è il tragitto. Il transito, direbbe Perniola. Già Butor parlò - non senza efficacia - di una iterologìe: il porsi della letteratura come viaggio, come lento processo di avvolgimento nel testo. E Serres, com'e risaputo, molto deve alla navigazione se la sua poeticissima epistemologia fa mappa di qualcosa, fossero pur solo turbolenze .
E prim'ancora Plinio, Mandeville, Defoe, Swift, Borges - solo per dirne qualcuno - e non dimenticando Kant. Il viaggio si compie attraverso i libri, non attraverso lo spazio, in un tempo impercettibile. Una “transitologia”, sempre da preferire a qualsiasi prossemica giacché non c'e vicinanza, non c'e prossimità ad ogni costo ma pura distanza. Una scienza dei transiti trabocca di transfert, di trasmissione del sapere, di itinerari artistici e intellettuali, di slittamenti, di dinamica delle cose e delle parole.





4. L'EXOTE E L' EMIGRANTE
(Distanze reali, simboliche e immaginarie)

Ovviamente, se Kant non si è mai mosso da Könisberg e ha viaggiato attraverso i libri, in particolare attraverso le cronache di viaggio e di viaggiatori, c'e chi ha viaggiato una vita. Realmente. C'e chi, per una qualche forma radicale d'insofferenza rispetto al proprio presente spaziotemporale o per una qualche curiosità tirannica oltre che di formato extra-large, la distanza se l'è prescritta da sé (ad esempio Gaugin); c'è chi la distanza l’ha subita (è il caso di tutta la letteratura dell'esiliato, del confinato, dell'emigrato).
Anne Marie Sauzeau (Il Manifesto, 27 Luglio 1989) ricorre alla teoria dell'esotismo di Victor Segalen per commentare l'amore di Gaugin per Tahiti. Proprio pensando a Gaugin, Segalen sogna la parola “exote”, opponendola allo “stato caleidoscopico del turista”. “La forte individualità dell'exote vive intensamente la propria reazione all'urto di un'altra realtà, oggettiva, di cui egli percepisce la distanza”. Un exote come Gaugin è fuori (ex) e fuori rimane, in una distanza vertiginosa e produttiva, che gli consente di far parlare l’Alterità, senza assestare il proprio esilio in un'altra appartenenza. Interessante sarebbe poi analizzare una via di mezzo; il turista pentito e guadagnato alla causa dell'esotismo per incidente, per “cattura”: e il caso di Debra Winger, che sul set di “Un tè nel deserto", prende una cotta incontrollabile per il deserto, la sua atmosfera e i suoi abitanti, e comincia ad abitare una terra di nessuno, divisa - non senza sofferenza - tra i Tuareg e il suo ambiente abituale (sul calco delle vicende di Bowles e di tantissimi altri presi dalla malattia del deserto).

Un'altra dimensione esotica, un'altro modo di abitare la distanza, è rintracciabile nell'emigrato. A Gaugin mi piace contrapporre una curiosa esperienza di migrazione di lingua, quella di Vincenzo Bonazza, disoccupato calabrese divenuto prima operaio poi scrittore, in una partita giocata tra la Calabria, la Svizzera e la Germania.
Bonazza si reca “alà, alà, alà frabbrikrà” e forte di un'esperienza forte (“sancue, sancue, sangue”) come i veri “bbifolki colle crafatte ala storta”, si autorizza all'abbandono e al ricordo del mix delle nenie, degli adagi, dei detti, perlopiù calabresi. Ricordati, reinventati e coniugati ad elementi linguistici francesi, spagnoli, germanici, insomma alle tracce delle emigrazioni altrui. Il suo Lemigrante (Dedalo, 1976) sa che ciò che conta - freudianamente - è il ricostruire non la reviviscenza. Intendendo che la distanza è questione eminentemente temporale e di linguaggio, e che il tempo delle nenie, dei motti, degli scherzi, insomma della lingua dell'infanzia, ritornano - a distanza - in un altro tempo. Quello della scrittura. Pratica elettiva per misurare il tempo vale a dire la nostra distanza da noi stessi. Sa pure che senza quella Svizzera “vaccara e orologiaia, quella the lincia gli emigrati e fa pagare le spese processuali ai morti di Mattmark” (come scriveva con splendido furore “Il Manifesto” di altri tempi), senza Svizzera non ci sarebbe stata alcuna pratica di scrittura. In ogni caso, in ogni caso di extravaganza (di cui Gaugin e Bonazza rappresentano - nel loro strambo accostamento - le due polarità, i limiti del range, dell'escursione) l'emigrazione, che sia reale, immaginaria o "di lingua", è necessaria. Fa sì che s'incontri l'estraneo, lo straniero, l'Altro. Che è sempre un Alter-Ego (questione ripresa nel paragrafo dedicato all'intrasoggettività). Vi e poi un'altra lontananza, un'altra emigrazione, agli antipodi di ogni travaglio della soggettività; tema machiavellico, moderno e mondano, dell'arte della sparizione, tecnica (e strategia) dello star lontano, precisato da Baltasar Graciàn e sicuramente ancora più antico. Tema del "dosarsi", cioè del calcolo e della pianificazione delle pubbliche apparizioni, di una tale attualità (uno dei cardini delle logiche dello star system) che ne meraviglia ogni possibile retrodatazione. “Mi si nota di più se …”, Nanni Moretti sul punto è stato ironicamente definitivo.

“Sapersi servire della lontananza, o per ottenere rispetto o per acquistare stima. Se la presenza sminuisce la fama, la lontananza l'accresce. Qualcuno che, stando lontano, fu tenuto in conto d'un leone, essendo presente si ridusse al ridicolo parto della montagna. Le qualità perdono lucentezza se si toccan troppo, perché se ne vede prima la scorza esterna che l'intima sostanziosa essenza dell'animo. La fantasia giunge più lontano della vista, e l'inganno che di solito entra attraverso le orecchie, esce poi dagli occhi. Chi sa mantenersi nel centro dell'opinione che gli altri han di lui, conserva la sua reputazione; anche la fenice si giova dei luoghi remoti per mantenere il decoro, e del desiderio che la sua assenza suscita per conseguir la stima.” (Baltasar Graciàn, Oracolo manuale e arte di prudenza, trad. di Antonio Gasparetti, pp. 162 - 163).





5. IL PAESE CHE MI PARE
(La distanza nel vissuto dell'emigrato)

cfr.



(continua, forse)






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