Come mai all'improvviso Antonio Schiavelli?
"Il mondo esiste perché il libro esiste;
perché esistere è crescere con il proprio nome" .
Edmond Jabès, I, 25
"Segni e rughe sono domande e risposte d'uno stesso inchiostro".
E. J. Edifico la mia dimora, I, 23
"Segna con una traccia rossa la prima pagina del libro,
perché la ferita è invisibile al suo inizio".
Reb Alcé, I, 7
Indice
introduzione? feat. Alessandro Chidichimo
0.
I FILE DIMENTICATI
Un
progetto di libro
1.
LO SPAZIO PARLA.
C'era
una volta la prossemica.
2.
GLI AGRIMENSORI DELLA COMUNICAZIONE.
Pragmatica
della distanza umana.
3.
TRANSITOLOGIE DEL TESTO.
Distanze
intertestuali.
4.
L'EXOTE E L'EMIGRANTE.
Distanze
reali, simboliche e immaginarie.
5.
IL PAESE CHE MI PARE.
La
distanza nell'Erlebnis dell'emigrato.
6.
ARU RISCUORDU.
La
distanza e la memoria.
7.
VERDIGLIONE LONTANO DA CAULONIA.
Le
origini della distanza e la distanza dalle origini.
8.
COME MAI ALL'IMPROVVISO TUTTE QUESTE RUGHE.
Fotografie
della distanza.
9.
SEGNI PER L'AVVENIRE.
La
distanza e l'antico.
10.
FORMA PERENNE.
La
distanza e la classicità.
11.
FUGA E ATTACCO: DINAMICA POETICA.
La
distanza del linguaggio poetico.
12.
INTERVALLO
Galeazzo
di Tarsia, Paul Klee, Ida Vitale, Edmond Jabès.
13.
"I DISTANTI"
Figure
della presa di distanza.
14.
INTERTESTUALITA' E INTRASOGGETTIVITA'.
Luci
della distanza.
15.
LA TERRA VISTA DALLA LUNA.
Punti
di vista, grandezze, gradi zero.
16.
GLI ABITANTI DELLA DISTANZA.
Breve
viaggio tra gli antichi.
17.
CONTRO L'EMPATIA.
Catalogo
provvisorio: Sigmund Freud.
18. IL SAPERE CONTRO LA CONOSCENZA.
Catalogo provvisorio: Jacques Lacan.
19. IL PATHOS DELLA DISTANZA E LA DISTANZA DAL PATHOS.
Catalogo provvisorio: F. Nietzsche.
20. COL DOVUTO RIMBALZO.
Catalogo provvisorio: Carlo Sini.
21. INCONTRI MANCATI.
Nietzsche, Freud,
Schnitzler, Jensen, Rolland, Lacan.
22. UN DIO LONTANO.
Simone Weil.
23. UNA SERENA IRONIA.
Roland Barthes.
24. LA METAFORA ACCORCIA LE DISTANZE
Paul Ricoeur, Hans Blumenberg.
25. IL COMPROMESSO LOGICO.
Elvio Fachinelli: tempo e spazio logici.
26. IRONICI, NEOCINICI, SAPIENTI.
Nuove adesioni al partito della distanza.
A sinistra
la foto di Paul Strand scattata nel 1955 a Luzzara.
A destra la
stessa persona fotografata vent'anni dopo da Gianni Berengo Gardin.
Cesare
Zavattini e Paul Strand, Un paese,
Einaudi, 1955
Cesare
Zavattini e Gianni Berengo Gardin, Un
paese vent'anni dopo, Einaudi, 1976
Come mai all'improvviso tutte queste rughe?
0. I file dimenticati
Un
progetto di libro
Da qualche anno ho
la chiara percezione di invecchiare. E se non sono comparse vere e proprie
rughe, sono arrivati i capelli bianchi e gli occhiali. Ecco, potrei dire: come
mai all’improvviso tutti questi occhiali? Da qualche anno sono diventato
l’agrimensore di una distanza: quella dalla lente destra a quella sinistra. Superati
i cinquant’anni, misuro la distanza tra le rughe che non ho. Almeno
all’esterno.
Assemblo oggi, come
se fosse un libro, testi che mi hanno tenuto compagnia dal 1990 al 1993, file
dimenticati che mi hanno a lungo guardato dal desktop. Più altri sperduti,
schierati in bell’ordine in qualche directory, che invocavano un “clicca su di
me”, “no su di me”. Così riportandoli alla luce diurna, quella del foglio, al
fine di strapparli al buio dell’hard disk, rendo loro giustizia come se fossero
testi rinchiusi in una cella buia (“giacere nel cassetto” in questi nostri
tempi digitali non si può più dire). Oppure, scenario forse più probabile,
rendendoli disponibili con un e-book o con altro tipo di collegamento
telematico, comunque consentendogli una mezz’ora d’aria (che è più o meno il
tempo occorrente per una scorsa veloce come per una passeggiata al guinzaglio).
Così confessando un punto di partenza claustrofobico.
Questo per dire che
si tratta di tracce, di spunti, di fili, senza fantasmi di autoconsistenza o di
esaustività, che altri mi auguro raccoglieranno.
Harold Bloom diceva
che la letteratura è fatta da interpoeti. Chi scrive la prefazione è uno di
questi. Soprattutto per lui e per qualche altro talentuoso come lui ho
preparato questo quaderno d’appunti.
PS
Come mai
all’improvviso tutte queste rughe?
La distanza da noi stessi
La distanza da noi stessi
Il titolo l’ho
rubato a Vincenzo Bonazza, il sottotitolo a Ettore Perrella.
Occorre
pure ringraziare Salvatore Piermarini per le foto di Strand e Berengo Gardin,
Gianmichele Candelise per le foto di Saverio Marra e di Marialba Russo, Fedele
Paolo per avermi costantemente incoraggiato a pubblicare quei file dimenticati.
(Marzo
2008)
§ § §
Cosa è qui?
(...)
Questo
per dire che in questo testo (un'antologia? un saggio? un ipertesto?) la
questione telematica - o più in generale tecnologica - resta fuori sperando
forse che sia il modo migliore di parlarne e di affermarne, nonostante tutto,
la seduzione.
E’ omessa perché viene in qualche modo rappresentata, messa in scena:
nel, modo, intertestuale e polifonico, che lo situa nei paraggi di un forum.
L'intento
è di un'antologia o - meglio - di un florilegio che possa servire a una teoria
della distanza prima di ogni telematica, ma anche prima di ogni nuova poetica,
di una nuova epistemologia, di una nuova didattica. Soprattutto di quest'ultima
mi piacerebbe sfatare la "fatale" interruzione del rapporto
inter-soggettivo e il conseguente fantasma, che agita un po’ tutte le
istituzioni che si occupano d'insegnamento a distanza, di "reintegrare le
condizioni dell'atto educativo strutturalmente e fatalmente spezzato"
(Desmond Keegan, Consorzio per l’Università a Distanza, 1989). Insomma, ovunque
si guardi, questa contiguità, nella trasmissione del sapere come in altri
campi, non la si trova mai. Del tutto, non si smette d'imbattersi in legami
spezzati, in comunicazioni interrotte, in siderali distanze: costituendo,
tutt'altro che un limite, veri e propri punti di forza. Ho così cercato di
rintracciare un po’ di abitanti della distanza, senza pretese di esaustività e
lasciando fuori da questa specie di repertorio Jean-Luc Marion, che si occupò della
distanza nelle icone della divinità. Ci si è limitati a cercare di rimettere
insieme un po’ di disiecta membra di pensieri d'altri. Con un montaggio
che, mi piacerebbe avesse il sapientissimo background di un Ceronetti
(ricordate il "suo" Il silenzio del corpo?), si limita a una
parziale e arbitraria ritessitura di testi che a volte sfiora il metodo
paranoico-critico di Dalì. Puro gioco d'intertestualità, dinamica di prossimità
presenti e impensate lontananze e dei loro rispettivi capovolgimenti. Anche se
traspare un certo amore per le distanze, sempre riconosciute, coltivate, a volte
mantenute, mai del tutto azzerate; e - al contrario - un certo fastidio per il
culto della prossimità, delle scorciatoie del tipo "diamoci del tu";
non si tratta propriamente di un'ipotesi forte che si direbbe già in partenza
gratuita e debole, quanto di un modo - che si direbbe freudiano - di costruire
attraverso, prendendo i testi per sintomi e soprattutto per amici. Esasperando
la primaria virtù del vocabolo. Che è - come scrive Jabès - quella di aver
legami. Ma senza troppo pathos: il vocabolo "legàmi" come si
trattasse di giochi d'influenze, interdipendenze e surdeterminazioni, tra
quartieri. Come se si trattasse di un'urbanistica senza troppe speculazioni.
(Giugno 1993)
§ § §
1. LO SPAZIO PARLA
C'era una volta la prossemica
(...)
2. GLI AGRIMENSORI DELLA COMUNICAZIONE
(Pragmatica della distanza umana)
(...)
Ricorderei di passaggio, a mo’ di emblema, il film "clinico" di Aaron Esterson (1975) intitolato: "Lo spazio fra le parole: la famiglia". Al contrario della semplice ingiunzione contraddittoria, notano gli studiosi di Palo Alto, in cui si sceglie una alternativa e si perde o si patisce l'altra alternativa (ma si offre almeno la possibilità di una scelta logica), l'ingiunzione paradossale fa fallire la scelta stessa innescando una serie oscillante e autoperpetuantesi. L'ingiunzione paradossale è il cosiddetto doppio legame. Vale a dire una trappola. Come la si può evitare? Semplicemente, con mossa ex-centrica, ponendosi alla giusta distanza e dunque metacomunicando. Ponendosi cioè al di là della trappola e sviscerandone il meccanismo perverso. Notava Giovanni Vailati che per designare qualcosa del genere gli scolastici utilizzavano il termine exponibilia (sofismi già considerati negli Elenchi aristotelici) che consentiva loro, senza distinguere un linguaggio oggetto da un metalinguaggio, senza cioè l'equivoco mantenuto da Wittgenstein, Carnap e Tarski, di rifiutarsi di prendere in considerazione quei dilemmi riconosciuti come insussistenti ma non di certo come patogeni. “In principio era la retroazione”. È questo l'enunciato meta-ghoetiano del fronte dell'organizzazione, con l'armamentario sistemico tanto lontano dalla sottigliezza e dalla precisione di un Bacon: “Le parole, come l'arco dei tartari, colpiscono all'indietro sul nostro comprendere”; e il modello più che circolare sembra essere quello dello strep tease; a giudicare dalla passione per la demistificazione, per lo svelamento dell'inganno. Come accorgersi che una metacomunicazione deve supporre l'esistenza di una comunicazione piena che o non esiste o è terrorista? Suvvia, solo quando è un cane a ringhiare ad un altro cane possiamo star certi che si sono compresi. Impossibile intendere dunque il fatale spezzarsi della comunicazione e che non c'è metacomunicazione perché non c'è metalinguaggio. Sul linguaggio non si parla, come hanno abbondantemente dimostrato Lacan e Miller. Figurarsi poi che credito possono avere, in siffatto background, le complicazioni per cui “l'emittente riceve dal ricevente il proprio messaggio in forma invertita” o che il soggetto è costituito retroattivamente dagli effetti di significante o – peggio ancora - che proprio dal fraintendimento, vale a dire dai mille quotidiani pseudo-doppio legami, deriva la verità. Ma queste sono sottigliezze e sofismi, per chi è preso dalla fabbrica di prontuari per la sana comunicazione e per il realizzarsi dell'individuo.
Come Peirce sentì il bisogno di coniare il termine “pragmaticismo” per prendere le distanze (una prossemica della teoria?) dal pragmatismo divenuto nel frattempo meschinello e psicologistico, così occorrerebbe che gli sforzi analitici racchiusi in questo libro, forse ancora attuali, venissero considerati a prescindere di certe ideologie spacciate come presupposti teorici e soprattutto a prescindere dalle applicazioni cliniche (poi neanche tanto funzionanti - così per pura empiria - nei casi di anoressia). Mi riferisco a chi elegantemente è passato da una teoria “della famiglia che uccide” a una pratica di accomodamento rispetto alle proprie famiglie di origine. Insomma, la famiglia, sempre ipostatizzata, fa ammalare e fa guarire. E se non è un doppio legame questo!
Occorre aggiungere che il cuore della pragmatica ha al suo interno una valenza etica che, anche se strangolata da un “sarebbe bene che fosse” che si balocca fra una comunicazione buona e una cattiva, potrebbe rientrare nel progetto barthesiano di una teoria del linguaggio, “una metodologia che permetterebbe di aggiornare i processi di appropriazione della lingua e di studiare la proprietà dei mezzi di enunciazione, qualcosa come il Capitale della scienza linguistica”.
Diceva - se non sbaglio - Arpino che l'uomo è dato dalla somma delle parole che riesce onestamente a usare. Se aggiungiamo le complicazioni dovute alla constatazione che sono piuttosto le parole a usare il parlante, definito con somma precisione “parlessere” (parletre) da J. Lacan, e ci troviamo davanti a un'altra pragmatica, a un'altra teorica, a un'altra politica del linguaggio. Quali sono le onestà del discorso che, nelle vesti di effetti di significante, disonestano l'uomo fino a incatenarlo?
3.TRANSITOLOGIE DEI
TESTI
(Distanze
intertestuali)
A questo punto
occorrerebbe passare a una disamina della prossimità destinatore/destinatario e
subito dopo di quella intercorrente tra i testi. Più in dettaglio, ma solo come
possibile diario di lavoro:
- la distanza tra
significato e significante (“il significante è innanzitutto ciò che ha effetto
di significato, ed importa non elidere il fatto che tra i due c'è qualcosa di
sbarrato da oltrepassare” - J. Lacan, “A Jakobson”, Seminario del 19.12.72);
- la distanza
interna al parallelismo secondo Greimas. Vale a dire se per caso si tratti di
scudocrociate convergenze parallele la “co-occorrenza” del discorso fonetico e
del discorso semantico in un testo;
- la distanza tra
gli elementi interni al testo (intratestualità);
- la distanza (cioè
gli sviluppi o gli arretramenti) tra i testi dello stesso autore
(intertestualità interna);
- la distanza tra
testi di autori differenti e di epoche differenti (intertestualità esterna);
- il campo
d'interferenze tra testo e contesto, e via allargando lo spettro e la misura.
Così facendo questo
scritto guadagnerebbe in rigore, specialismo e pedanteria. Nella esplorazione
di tutti i tragitti, catturato da un fantasma di esaustività, e nella
declinazione degli universi possibili centrati su di essa.
Costituendo, come se
non bastasse, un ulteriore preambolo a quanto mi preme, non sostenere (ché non
vi è nessuna ipotesi forte), ma fare. E cioè un notes poetico, un catalogo
delle distanze e degli autori che vi hanno girato intorno, a volte consapevoli
a volte no, a volte “fenotesto” a volte “genotesto”. Compiendo una traversata
che cercherà di costituire un florilegio.
Mi accontenterò
dunque di un discorso secondo, basato sul rispecchiamento, giacché il presente
scritto non fa che accostare, tagliare, incollare, tracciar vettori tra testi
differenti. Mi piacerebbe fosse sul calco di una topologia, ma -ahimè- non è
così neutrale e matematico. Mette in gioco pure una faziosità, una reazione
all'ideologia umanistica del “volémose bene”, dell'empatia e dell'azzeramento
delle distanze. Mette in gioco pure una mensura. O meglio, due. La prima
non riesce a sottrarsi alla constatazione che il pensiero di Freud e - per
esempio - di un Bateson hanno portate (un altro vocabolo della distanza)
diverse. La seconda, senza giudizio di grandezze, si limita a misurare, in
termini di vicinanza/lontananza, autori testi e saperi che qualche sentinella
universitaria vorrebbe ancora divisi da improbabili confini.
Dicevamo poc'anzi
della distanza tra testi. O meglio - per fare un po’ di corpo - tra libri. In
debito con le meravigliose biblioteche borgesiane, un'analogia viene in
soccorso: se son lì tranquilli a toccarsi senza complessi, dorso a dorso,
quarta e prima di copertina, accatastati in ordine sparso o ordinati in
scaffale, vuol dire che l'incontro dei testi rispettivi non solo è possibile,
quanto non smette di effettuarsi. Queneau in “Icaro involato” (Le vol
d'Icare) ne rappresenta il colmo, con tutto quel fuggi fuggi di personaggi
dai romanzi di un geloso gruppetto di scrittori. Un parapiglia esemplare di
fughe, incontri, furti, influenze e rapimenti. Strada poi seguita da Woody
Allen nella “Rosa purpurea del Cairo” e da
Maurizio Nichetti in “Ladri di saponette” e poi in “Volere volare”. Certo c'è
della ricorsività, c'è qualcosa di matematico in quelle strutture da
fuori-spazio; e che si tratti di paradossi non sposta un granché, risultando
alla fine del tutto trascurabile. Evidentemente nulla vieta che si scappi dalla
cornice, dal genere, dal libro, dal film. Quel che conta è il tragitto. Il
transito, direbbe Perniola. Già Butor parlò - non senza efficacia - di una iterologìe:
il porsi della letteratura come viaggio, come lento processo di avvolgimento
nel testo. E Serres, com'e risaputo, molto deve alla navigazione se la sua
poeticissima epistemologia fa mappa di qualcosa, fossero pur solo turbolenze .
E prim'ancora Plinio, Mandeville,
Defoe, Swift, Borges - solo per dirne qualcuno - e non dimenticando Kant. Il
viaggio si compie attraverso i libri, non attraverso lo spazio, in un tempo
impercettibile. Una “transitologia”, sempre da preferire a qualsiasi prossemica
giacché non c'e vicinanza, non c'e prossimità ad ogni costo ma pura distanza.
Una scienza dei transiti trabocca di transfert, di trasmissione del sapere, di
itinerari artistici e intellettuali, di slittamenti, di dinamica delle cose e
delle parole.
4. L'EXOTE E L'
EMIGRANTE
(Distanze reali,
simboliche e immaginarie)
Ovviamente, se Kant
non si è mai mosso da Könisberg e ha viaggiato attraverso i libri, in
particolare attraverso le cronache di viaggio e di viaggiatori, c'e chi ha
viaggiato una vita. Realmente. C'e chi, per una qualche forma radicale
d'insofferenza rispetto al proprio presente spaziotemporale o per una qualche
curiosità tirannica oltre che di formato extra-large, la distanza se l'è
prescritta da sé (ad esempio Gaugin); c'è chi la distanza l’ha subita (è il
caso di tutta la letteratura dell'esiliato, del confinato, dell'emigrato).
Anne Marie Sauzeau
(Il Manifesto, 27 Luglio 1989) ricorre alla teoria dell'esotismo di Victor
Segalen per commentare l'amore di Gaugin per Tahiti. Proprio pensando a Gaugin,
Segalen sogna la parola “exote”, opponendola allo “stato caleidoscopico del
turista”. “La forte individualità dell'exote vive intensamente la
propria reazione all'urto di un'altra realtà, oggettiva, di cui egli percepisce
la distanza”. Un exote come Gaugin è fuori (ex) e fuori rimane,
in una distanza vertiginosa e produttiva, che gli consente di far parlare
l’Alterità, senza assestare il proprio esilio in un'altra appartenenza.
Interessante sarebbe poi analizzare una via di mezzo; il turista pentito e
guadagnato alla causa dell'esotismo per incidente, per “cattura”: e il caso di
Debra Winger, che sul set di “Un tè nel deserto", prende una cotta
incontrollabile per il deserto, la sua atmosfera e i suoi abitanti, e comincia
ad abitare una terra di nessuno, divisa - non senza sofferenza - tra i Tuareg e
il suo ambiente abituale (sul calco delle vicende di Bowles e di tantissimi
altri presi dalla malattia del deserto).
Un'altra dimensione
esotica, un'altro modo di abitare la distanza, è rintracciabile nell'emigrato.
A Gaugin mi piace contrapporre una curiosa esperienza di migrazione di lingua,
quella di Vincenzo Bonazza, disoccupato calabrese divenuto prima operaio poi
scrittore, in una partita giocata tra la Calabria, la Svizzera e la Germania.
Bonazza si reca
“alà, alà, alà frabbrikrà” e forte di un'esperienza forte (“sancue, sancue,
sangue”) come i veri “bbifolki colle crafatte ala storta”, si autorizza
all'abbandono e al ricordo del mix delle nenie, degli adagi, dei detti,
perlopiù calabresi. Ricordati, reinventati e coniugati ad elementi linguistici
francesi, spagnoli, germanici, insomma alle tracce delle emigrazioni altrui. Il
suo Lemigrante (Dedalo, 1976) sa che ciò che conta - freudianamente - è
il ricostruire non la reviviscenza. Intendendo che la distanza è questione
eminentemente temporale e di linguaggio, e che il tempo delle nenie, dei motti,
degli scherzi, insomma della lingua dell'infanzia, ritornano - a distanza - in
un altro tempo. Quello della scrittura. Pratica elettiva per misurare il tempo
vale a dire la nostra distanza da noi stessi. Sa pure che senza quella Svizzera
“vaccara e orologiaia, quella the lincia gli emigrati e fa pagare le spese
processuali ai morti di Mattmark” (come scriveva con splendido furore “Il
Manifesto” di altri tempi), senza Svizzera non ci sarebbe stata alcuna pratica
di scrittura. In ogni caso, in ogni caso di extravaganza (di cui Gaugin e
Bonazza rappresentano - nel loro strambo accostamento - le due polarità, i
limiti del range, dell'escursione) l'emigrazione, che sia reale, immaginaria o "di
lingua", è necessaria. Fa sì che s'incontri l'estraneo, lo straniero,
l'Altro. Che è sempre un Alter-Ego (questione ripresa nel paragrafo dedicato
all'intrasoggettività). Vi e poi un'altra lontananza, un'altra emigrazione,
agli antipodi di ogni travaglio della soggettività; tema machiavellico, moderno
e mondano, dell'arte della sparizione, tecnica (e strategia) dello star
lontano, precisato da Baltasar Graciàn e sicuramente ancora più antico. Tema
del "dosarsi", cioè del calcolo e della pianificazione delle
pubbliche apparizioni, di una tale attualità (uno dei cardini delle logiche
dello star system) che ne meraviglia ogni possibile retrodatazione. “Mi si nota
di più se …”, Nanni Moretti sul punto è stato ironicamente definitivo.
“Sapersi servire
della lontananza, o per ottenere rispetto o per acquistare stima. Se la
presenza sminuisce la fama, la lontananza l'accresce. Qualcuno che, stando
lontano, fu tenuto in conto d'un leone, essendo presente si ridusse al ridicolo
parto della montagna. Le qualità perdono lucentezza se si toccan troppo, perché
se ne vede prima la scorza esterna che l'intima sostanziosa essenza dell'animo.
La fantasia giunge più lontano della vista, e l'inganno che di solito entra
attraverso le orecchie, esce poi dagli occhi. Chi sa mantenersi nel centro
dell'opinione che gli altri han di lui, conserva la sua reputazione; anche la
fenice si giova dei luoghi remoti per mantenere il decoro, e del desiderio che
la sua assenza suscita per conseguir la stima.” (Baltasar Graciàn, Oracolo
manuale e arte di prudenza, trad. di Antonio Gasparetti, pp. 162 - 163).
5. IL PAESE CHE MI
PARE
(La distanza nel
vissuto dell'emigrato)
cfr.
cfr.
(continua, forse)
Nessun commento:
Posta un commento
Bando agli indugi, scrivi-scrì
':