sabato 4 maggio 2019

Quota 100




Quota 100
La distanza da noi stessi

di Alessandro Chidichimo


"Segni e rughe sono domande e risposte d'uno stesso inchiostro".
Edifico la mia dimora )[1]


Ragioni introduttive.
La ragione per cui non credo che potrete rinunciare alla lettura di questo libro[2] è che questo libro fa testo di ciò che è sempre tra noi ma è del tutto invisibile. E di altro che è su di noi ed è visibile solo agli altri: uno spettacolo che portiamo in tournée nel nostro peregrinare quotidiano. Questo libro parla di distanza. Di distanza e di rughe. Questo libro parla dell’illusione del ricordare e del dimenticare ciò che ricordavamo perché oggi diciamo cose diverse anche quando parliamo delle stesse cose di un tempo. Questo libro parla del tempo che si mette di traverso tra un significante e un significato. Parlando sempre delle stesse cose, ma non volendo sapere ciò che si sta dicendo come qualcosa di già detto. Ritrovamenti di frammenti di ciò che eravamo e che non riconosciamo più.


Da bambino, 
quando scrissi per la prima volta il mio nome,
ebbi coscienza di iniziare un libro
Reb Stein

Cominciamo dall'essere distante.
Che cosa sarebbe la distanza? Il rischio è di complicare sempre di più una possibile spiegazione, ma per parlare di qualcosa che non esiste, come appunto la distanza, dobbiamo per forza usare una incerta quantità di parole che facciano da contrappeso all'assenza. La distanza in quanto entità è il rapporto che c’è tra due punti di riferimento. La distanza è la differenza. Da qui a lì. Da questa lettera a questo punto. E per prima cosa da questa figlia appena nata a questa madre.
La distanza di cui parla questo libro, però, non è il tipo di distanza che c’è tra casa vostra e il fruttivendolo in fondo alla strada, o almeno non solo di quella. La distanza, ovvero il rapporto differenziale, qui è (abbastanza) immateriale – non si misura né con i metri né con i passi – o meglio è materiale QB (quanto basta) per ciò che serve e per la sua natura. Da A a B e a volte solo da A ad A. Da qui a qui.
Il testo è organizzato come un continuo rimando, un continuo misurare. Come una scrittura della distanza (e quindi una doppia distanza) che non si accontenta di essere ciò che è e corre all’impazzata da un punto all’altro, da un segno all’altro. “E’ tardi, è tardi” insieme a “Non è mai troppo tardi”. Come una scalata senza seguire una mappa del percorso ma fermandosi dove si trova maggiore agio, ma sempre brevemente e sempre con lo sguardo rivolto verso l’alto. E’ un notes poetico, come dice Massimo Celani. Appunti presi e raccolti in virtù dello spostamento consentito dal taccuino e dalla natura della scrittura: sempre come luogo da raggiungere e sempre come fuga/ritorno. Pagine da scrivere, tempo da riempire.





Continuare con le rughe: invecchiare.
Alcuni studiosi che si occupano dell’invecchiamento hanno ritenuto fissare la soglia della vecchiaia, età di cui le rughe sono testimoni eccellenti, non già in funzione della vita trascorsa dalla nascita (60 o 65 anni), ma in funzione di quella residua, ossia del numero di anni (n) che in media un individuo può aspettarsi ancora di vivere. Secondo questo criterio, scegliendo per esempio n=10 l'età di soglia si è spostata in avanti: era di 65 anni per entrambi i sessi nel 1901, è passata nel 1990 a circa 73 anni per gli uomini e 77 per le donne (Istat, 1993). [3]
In pratica questo approccio considera il dato dell’età partendo dalla fine della vita e non dall’inizio. Ovvero se la media possibile di vita è di 100 anni e un uomo ha 30 anni, allora il diligente ricercatore segnerà sul suo taccuino nero che quell’uomo ha n=70. Un conto alla rovescia prima della dipartita, insomma.
Cifra che si fonda non sull’avere, ma sul mancare e sull’assenza. Non sull’essere e l’andare verso, ma su ciò che già si è e sull’impossibilità di andare da qualche parte. Questi studiosi è come se intendessero trovare un cadavere tutto rugoso e da lì cominciare a fare censimento dei segni come degli anelli nel tronco di un albero. Al contrario la vecchiaia e i suoi indizi, come le rughe, seguono il percorso inverso. Le rughe sono segni che sedimentano e solcano giorno dopo giorno il viso, il collo, le mani, gli occhi. E’ l’inchiostro che finisce e allora non resta che scrivere incidendo la carta.



Massimo Bordin, la voce di radio radicale

Mutabili e immutabili.
Una definizione di invecchiamento da un dizionario: modificazione della struttura fisica chimica di una sostanza. In breve invecchiare è cambiare, restando sempre però quella sostanza. Più cambi e più dovresti essere invecchiato. E il tempo che si resta vivi è lo spazio della possibilità dei cambiamenti. Invecchi se fai esperienze e non se resti a casa aspettando di invecchiare o almeno invecchi in modo diverso. Ci sono quindi diversi modi di invecchiare, diverse qualità di invecchiamento. Diversi modi di cambiare. Perché è il tempo allora che è segnato dai cambiamenti per cui posso seguire dei riferimenti rispetto a ciò che era prima. Il tempo per una persona è segnato dai cambiamenti che porta addosso: dalle sue rughe. E di contro nel tempo avvengono questi cambiamenti.

Ferdinand de Saussure parla di “vita semiologica” dei segni. Dove la parola vita assume un significato tutto speciale per quanto riguarda la nostra discussione sulla distanza e sulle rughe. “Il segno è in condizione di alterarsi in quanto si continua. Ciò che domina in ogni alterazione è la persistenza della materia antica; l’infedeltà al passato non è che relativa”. E ancora: “Il tempo che assicura la continuità della lingua, ha un altro effetto, altera i segni nonostante questo stesso fattore. Mutabilità e immutabilità sono due fatti solidali”. E infine: “Quali che siano i fattori di alterazione, agiscono essi isolati o combinati, sfociano sempre in uno spostamento del rapporto tra il significato e il significante”. Uno spostamento in un segno.








I segni secondo Saussure, allora, sono soggetti a cambiamento. E cambiano proprio perché all’interno del sistema lingua un fattore determinante è il tempo. Lo stesso tempo che ne garantisce la continuità. I segni di una lingua sono segni storici. Vivono tra gli uomini, la massa parlante, e nel tempo. Come un abitante tra gli altri la lingua si sposta con le popolazioni e ne vive gli stravolgimenti quotidiani. I segni di una lingua proprio come gli uomini si consumano, vivono e poi infine muoiono? Hanno le rughe, i segni? I segni con il passare del tempo crescono, diminuiscono, si aggiungono, scompaiono, scavano solchi: che cosa succede ai segni con il passare del tempo?


Charles Sanders Peirce afferma che “(-) la parola o segno che l’uomo usa è l’uomo stesso” e ancora che “L’uomo è un segno“. Gli uomini come i segni hanno una vita. E se gli esseri umani invecchiano e sono segni, allora i segni invecchiano. Sembrerebbe facile. Allora la distanza sarebbe il rapporto che c’è tra un segno e l’altro. Tra un uomo ed un altro uomo, tra un luogo e un altro luogo. Tra l’essere un uomo e l’essere un altro uomo. E ancora le rughe sarebbero l’apparizione delle infinite passeggiate dei segni, ovvero il solco lasciato dal loro passaggio e del loro andare in giro per il mondo, della loro vita infine. E quindi sono i segni che consumano. E’ il nostro stesso essere segni che ci consuma. La distanza dalle parole.


Ognuno scrivendo si pone di fronte a un metro per misurarsi. Le parole e il modo di tessere l’inchiostro sulla pagina sono segni che restano del proprio passaggio. In piedi a leggere il tempo segnato da uno gnomone, a volte con le spalle appoggiategli contro per trovare sostegno, altre a prendere l’ombra e cercarne riparo. Tutti comunque a cercare la propria misura, le proprie buone parole per dire qualcosa a rischio di essere fraintesi, che il sole giri disorientandoci e così l’ombra lasciandoci con il capo a scottarsi.


Ma che cosa dovremmo intendere per buone? Quando una parola è buona? Potrebbe essere buona se rendesse bene l’idea di ciò che vuole dire. Ovvero se facesse intendere altre parole più chiare di quelle usate precedentemente. E potrebbe essere buona se fosse fedele ai fatti. Se non fosse distante da una verità. Tutte queste proposizioni rimandano a una sola dinamica: quella della distanza appunto. Fedeltà, chiarezza, verità fanno gruppo con una lettura di vicinanza maggiore o minore a qualcosa non bene identificabile che segna la misura da raggiungere, il riferimento per stabilire quanto lontano o vicino siamo andati con le nostre parole. Potremmo riformulare così l’argomentazione. Una parola è buona se si lascerà comprendere da qualcuno che si troverà a una distanza in qualche modo utile a una interpretazione. Se qualcuno la prenderà sulle spalle portandosene il peso e la qualità. Assumendosi la responsabilità e le possibili conseguenze di ciò che ha letto, di ciò che ha inteso. Tanto che le parole ci sorreggono nelle nostre argomentazioni, sulle nostre gambe. Segni che portano segni.


Nel momento in cui scriviamo le parole sulla carta e sul monitor del computer, non ci appartengono più. Diventano immediatamente passate e libere di andare a farsi leggere, scrivere e interpretare. Restano però proprio come le rughe una tacca nel tempo che è passato e il ricordo di un luogo attraversato. Ogni parola usata è un segno che arrivato a noi dalla lingua viene rimesso in circolo a scontrarsi con il mondo. Viene spinto a fare esperienza del mondo. Fino alla domanda fatidica: “Quali sono state le sue ultime parole?”.

Del titolo o della fine.
La distanza da noi stessi[4] si misura con la morte e con la fine di un segno che resta come cometa a indicare la strada. Morte che è trasformazione, cambiamento seppure estremo, seppure restando sempre noi stessi. Le tracce delle rughe sono spostamenti nel tempo che riflettono spostamenti nello spazio: impossibile decidere a quale spazio si prenda per buono. A furia di andare da qualche parte, però, si può dimenticare di fare una visita a se stessi. Leggete questo libro-taccuino per concedervi il lusso di una visita a voi stessi. E se vi troverete a vostro agio allora potrete continuarlo, scrivendo i paragrafi non scritti, aggiungendo note e citazioni, solo per continuarvi. Per essere segni e trovare le misure per le vostre distanze.

Alessandro Chidichimo







[1] Il libro delle interrogazioni, cura e postfazione di Gianni Scalia, introduzione di Massimo Cacciari, traduzione di Chiara Rebellato, Casale Monferrato, Casa Editrice Marietti, Biblioteca “In Forma di Parole”, 1985 // Ed. orig.: Le Livre des Questions, Paris, Editions Gallimard, 1963
[2]  Questo testo è stato redatto in anni lontani come prefazione a un breve saggio di Massimo Celani, intitolato Come mai all’improvviso tutte queste rughe. La distanza da noi stessi. Uno scritto soggetto a rinvii continui, mai ultimato e mai dato alle stampe. Forse perché vi si annidava un’idea borgesiana di mappa di un impero in scala 1: 1 o – comunque – di “cerchio che non chiude”, che si facesse carico dell’incompiutezza accogliendo l’errore insito nel suo sforzo di praticare un’approssimazione infinita e per maturare coscienza della propria pratica (Francesco Giusti, in SiGma, n.1, 2017). Un fare inevitabilmente soccombente all’effetto Vita di Lenin: ”Con assoluta fedeltà / è rispettato il tempo naturale della vita di Lenin. / Il film dura 54 anni./ Si dovrebbe almeno / rivederlo due volte. (vita di lenin / corrado costa. 1983)
[3] Per gli uomini, secondo il rapporto Istat, la stima è di 80,8 anni (+0,2 sul 2017) mentre per le donne è di 85,2 anni (+0,3). A 65 anni di età la speranza di vita residua è di 19,3 anni per gli uomini (+0,3 sul 2017) e di 22,4 anni per le donne (+0,2).7 feb 2019. Questa nota serve solo a rimarcare la data di avvio di questo testo, che aveva come riferimento i dati Istat del 1993, e che è stato ultimato coi dati del 2019
[4] In Ettore Perrella, Il tempo etico (o la ragione freudiana), Biblioteca dell’Immagine, Pordenone, 1986


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1 commento:

Bando agli indugi, scrivi-scrì
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