Quota
100
La distanza da noi stessi
di Alessandro
Chidichimo
"Segni e rughe sono domande e risposte d'uno stesso
inchiostro".
( Edifico la mia dimora )[1]
Ragioni introduttive.
La ragione per cui non
credo che potrete rinunciare alla lettura di questo libro[2]
è che questo libro fa testo di ciò che è sempre tra noi ma è del tutto
invisibile. E di altro che è su di noi ed è visibile solo agli altri: uno spettacolo
che portiamo in tournée nel nostro peregrinare quotidiano. Questo libro parla
di distanza. Di distanza e di rughe. Questo libro parla dell’illusione del
ricordare e del dimenticare ciò che ricordavamo perché oggi diciamo cose
diverse anche quando parliamo delle stesse cose di un tempo. Questo libro parla
del tempo che si mette di traverso tra un significante e un significato.
Parlando sempre delle stesse cose, ma non volendo sapere ciò che si sta dicendo
come qualcosa di già detto. Ritrovamenti di frammenti di ciò che eravamo e che
non riconosciamo più.
Da bambino,
quando scrissi per la prima volta il mio nome,
ebbi coscienza di iniziare un libro
Reb Stein
Cominciamo dall'essere distante.
Che cosa sarebbe la
distanza? Il rischio è di complicare sempre di più una possibile spiegazione,
ma per parlare di qualcosa che non esiste, come appunto la distanza, dobbiamo
per forza usare una incerta quantità di parole che facciano da contrappeso
all'assenza. La distanza in quanto entità è il rapporto che c’è tra due punti
di riferimento. La distanza è la differenza. Da qui a lì. Da questa lettera a
questo punto. E per prima cosa da questa figlia appena nata a questa madre.
La distanza di cui parla
questo libro, però, non è il tipo di distanza che c’è tra casa vostra e il
fruttivendolo in fondo alla strada, o almeno non solo di quella. La distanza,
ovvero il rapporto differenziale, qui è (abbastanza) immateriale – non si
misura né con i metri né con i passi – o meglio è materiale QB (quanto basta)
per ciò che serve e per la sua natura. Da A a B e a volte solo da A ad A. Da
qui a qui.
Il testo è organizzato
come un continuo rimando, un continuo misurare. Come una scrittura della
distanza (e quindi una doppia distanza) che non si accontenta di essere ciò che
è e corre all’impazzata da un punto all’altro, da un segno all’altro. “E’
tardi, è tardi” insieme a “Non è mai troppo tardi”. Come una scalata senza
seguire una mappa del percorso ma fermandosi dove si trova maggiore agio, ma
sempre brevemente e sempre con lo sguardo rivolto verso l’alto. E’ un notes
poetico, come dice Massimo Celani. Appunti presi e raccolti in virtù dello
spostamento consentito dal taccuino e dalla natura della scrittura: sempre come
luogo da raggiungere e sempre come fuga/ritorno. Pagine da scrivere, tempo da
riempire.
Continuare con le rughe: invecchiare.
Alcuni studiosi che si occupano
dell’invecchiamento hanno ritenuto fissare la soglia della vecchiaia, età di
cui le rughe sono testimoni eccellenti, non già in funzione della vita
trascorsa dalla nascita (60 o 65 anni), ma in funzione di quella residua, ossia
del numero di anni (n) che in media un individuo può aspettarsi ancora di
vivere. Secondo questo criterio, scegliendo per esempio n=10 l'età di soglia si
è spostata in avanti: era di 65 anni per entrambi i sessi nel 1901, è passata
nel 1990 a circa 73 anni per gli uomini e 77 per le donne (Istat, 1993). [3]
In pratica questo approccio considera il
dato dell’età partendo dalla fine della vita e non dall’inizio. Ovvero se la
media possibile di vita è di 100 anni e un uomo ha 30 anni, allora il diligente
ricercatore segnerà sul suo taccuino nero che quell’uomo ha n=70. Un conto alla
rovescia prima della dipartita, insomma.
Cifra che si fonda non sull’avere, ma
sul mancare e sull’assenza. Non sull’essere e l’andare verso, ma su ciò che già
si è e sull’impossibilità di andare da qualche parte. Questi studiosi è come se
intendessero trovare un cadavere tutto rugoso e da lì cominciare a fare
censimento dei segni come degli anelli nel tronco di un albero. Al contrario la
vecchiaia e i suoi indizi, come le rughe, seguono il percorso inverso. Le rughe
sono segni che sedimentano e solcano giorno dopo giorno il viso, il collo, le
mani, gli occhi. E’ l’inchiostro che finisce e allora non resta che scrivere
incidendo la carta.
Mutabili e immutabili.
Una definizione di
invecchiamento da un dizionario: modificazione della struttura fisica chimica
di una sostanza. In breve invecchiare è cambiare, restando sempre però quella
sostanza. Più cambi e più dovresti essere invecchiato. E il tempo che si resta
vivi è lo spazio della possibilità dei cambiamenti. Invecchi se fai esperienze
e non se resti a casa aspettando di invecchiare o almeno invecchi in modo
diverso. Ci sono quindi diversi modi di invecchiare, diverse qualità di
invecchiamento. Diversi modi di cambiare. Perché è il tempo allora che è
segnato dai cambiamenti per cui posso seguire dei riferimenti rispetto a ciò
che era prima. Il tempo per una persona è segnato dai cambiamenti che porta
addosso: dalle sue rughe. E di contro nel tempo avvengono questi cambiamenti.
Ferdinand de Saussure parla di “vita semiologica” dei segni. Dove la parola vita assume un significato tutto speciale per quanto riguarda la nostra discussione sulla distanza e sulle rughe. “Il segno è in condizione di alterarsi in quanto si continua. Ciò che domina in ogni alterazione è la persistenza della materia antica; l’infedeltà al passato non è che relativa”. E ancora: “Il tempo che assicura la continuità della lingua, ha un altro effetto, altera i segni nonostante questo stesso fattore. Mutabilità e immutabilità sono due fatti solidali”. E infine: “Quali che siano i fattori di alterazione, agiscono essi isolati o combinati, sfociano sempre in uno spostamento del rapporto tra il significato e il significante”. Uno spostamento in un segno.I segni secondo Saussure, allora, sono soggetti a cambiamento. E cambiano proprio perché all’interno del sistema lingua un fattore determinante è il tempo. Lo stesso tempo che ne garantisce la continuità. I segni di una lingua sono segni storici. Vivono tra gli uomini, la massa parlante, e nel tempo. Come un abitante tra gli altri la lingua si sposta con le popolazioni e ne vive gli stravolgimenti quotidiani. I segni di una lingua proprio come gli uomini si consumano, vivono e poi infine muoiono? Hanno le rughe, i segni? I segni con il passare del tempo crescono, diminuiscono, si aggiungono, scompaiono, scavano solchi: che cosa succede ai segni con il passare del tempo?
Charles Sanders Peirce afferma che “(-) la parola o segno che l’uomo usa è l’uomo stesso” e ancora che “L’uomo è un segno“. Gli uomini come i segni hanno una vita. E se gli esseri umani invecchiano e sono segni, allora i segni invecchiano. Sembrerebbe facile. Allora la distanza sarebbe il rapporto che c’è tra un segno e l’altro. Tra un uomo ed un altro uomo, tra un luogo e un altro luogo. Tra l’essere un uomo e l’essere un altro uomo. E ancora le rughe sarebbero l’apparizione delle infinite passeggiate dei segni, ovvero il solco lasciato dal loro passaggio e del loro andare in giro per il mondo, della loro vita infine. E quindi sono i segni che consumano. E’ il nostro stesso essere segni che ci consuma. La distanza dalle parole.
Ognuno scrivendo si pone di fronte a un metro per misurarsi. Le parole e il modo di tessere l’inchiostro sulla pagina sono segni che restano del proprio passaggio. In piedi a leggere il tempo segnato da uno gnomone, a volte con le spalle appoggiategli contro per trovare sostegno, altre a prendere l’ombra e cercarne riparo. Tutti comunque a cercare la propria misura, le proprie buone parole per dire qualcosa a rischio di essere fraintesi, che il sole giri disorientandoci e così l’ombra lasciandoci con il capo a scottarsi.
Ma che cosa dovremmo intendere per buone? Quando una parola è buona? Potrebbe essere buona se rendesse bene l’idea di ciò che vuole dire. Ovvero se facesse intendere altre parole più chiare di quelle usate precedentemente. E potrebbe essere buona se fosse fedele ai fatti. Se non fosse distante da una verità. Tutte queste proposizioni rimandano a una sola dinamica: quella della distanza appunto. Fedeltà, chiarezza, verità fanno gruppo con una lettura di vicinanza maggiore o minore a qualcosa non bene identificabile che segna la misura da raggiungere, il riferimento per stabilire quanto lontano o vicino siamo andati con le nostre parole. Potremmo riformulare così l’argomentazione. Una parola è buona se si lascerà comprendere da qualcuno che si troverà a una distanza in qualche modo utile a una interpretazione. Se qualcuno la prenderà sulle spalle portandosene il peso e la qualità. Assumendosi la responsabilità e le possibili conseguenze di ciò che ha letto, di ciò che ha inteso. Tanto che le parole ci sorreggono nelle nostre argomentazioni, sulle nostre gambe. Segni che portano segni.
Nel momento in cui scriviamo le parole sulla carta e sul monitor del computer, non ci appartengono più. Diventano immediatamente passate e libere di andare a farsi leggere, scrivere e interpretare. Restano però proprio come le rughe una tacca nel tempo che è passato e il ricordo di un luogo attraversato. Ogni parola usata è un segno che arrivato a noi dalla lingua viene rimesso in circolo a scontrarsi con il mondo. Viene spinto a fare esperienza del mondo. Fino alla domanda fatidica: “Quali sono state le sue ultime parole?”.
Del titolo o della fine.
La distanza da noi stessi[4]
si misura con la morte e con la fine di un segno che resta come cometa a
indicare la strada. Morte che è trasformazione, cambiamento seppure estremo,
seppure restando sempre noi stessi. Le tracce delle rughe sono spostamenti nel
tempo che riflettono spostamenti nello spazio: impossibile decidere a quale
spazio si prenda per buono. A furia di andare da qualche parte, però, si può
dimenticare di fare una visita a se stessi. Leggete questo libro-taccuino per
concedervi il lusso di una visita a voi stessi. E se vi troverete a vostro agio
allora potrete continuarlo, scrivendo i paragrafi non scritti, aggiungendo note
e citazioni, solo per continuarvi. Per essere segni e trovare le misure per le
vostre distanze.
Alessandro
Chidichimo
[1] Il libro delle interrogazioni, cura e postfazione di Gianni Scalia, introduzione di Massimo Cacciari, traduzione di Chiara Rebellato, Casale Monferrato, Casa Editrice Marietti, Biblioteca “In Forma di Parole”, 1985 // Ed. orig.: Le Livre des Questions, Paris, Editions Gallimard, 1963
[2] Questo testo è stato redatto in anni lontani
come prefazione a un breve saggio di Massimo Celani, intitolato Come mai all’improvviso tutte queste rughe.
La distanza da noi stessi. Uno scritto soggetto a rinvii continui, mai ultimato
e mai dato alle stampe. Forse perché vi si annidava un’idea borgesiana di mappa
di un impero in scala 1: 1 o – comunque – di “cerchio che non chiude”, che si
facesse carico dell’incompiutezza accogliendo l’errore insito nel suo sforzo di
praticare un’approssimazione infinita e per maturare coscienza della propria
pratica (Francesco Giusti, in SiGma, n.1, 2017). Un fare inevitabilmente
soccombente all’effetto Vita di Lenin:
”Con assoluta fedeltà / è rispettato il tempo naturale della vita di Lenin. /
Il film dura 54 anni./ Si dovrebbe almeno / rivederlo due volte. (vita di lenin
/ corrado costa. 1983)
[3] Per gli
uomini, secondo il rapporto Istat, la stima è di 80,8 anni (+0,2 sul 2017)
mentre per le donne è di 85,2 anni (+0,3). A 65 anni di età la speranza di vita
residua è di 19,3 anni per gli uomini (+0,3 sul 2017) e di 22,4 anni per le
donne (+0,2).7 feb 2019. Questa nota serve solo a rimarcare la data di avvio di
questo testo, che aveva come riferimento i dati Istat del 1993, e che è stato
ultimato coi dati del 2019
[4] In
Ettore
Perrella, Il tempo etico (o la ragione
freudiana), Biblioteca dell’Immagine, Pordenone, 1986
§ § §
interessantissimo
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