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INTRODUZIONE
Nonostante ciò che si possa credere,
arte e diritto sono intimamente legate. Non bisogna quindi soffermarsi a
pensare al Diritto come un qualcosa di infinitamente astratto, richiuso in un
libro che solo gli avvocati, giudici e burocrati sono in grado di aprire. Il
Diritto, in tutte le sue accezioni, coinvolge la vita privata e pubblica del
cittadino, aiuta a regolamentare ogni evenienza che possa risultare sgradevole
ad esso, o illegale in qualsiasi modo, così da poter aiutare chi di dovere a
far valere la legge. Questa è la definizione più generica che si possa dare al
Diritto, ma non per questo meno rilevante. Per quanto riguarda l’arte, essa non
ha bisogno di spiegazioni: viverla, fruirne in modo consono, è un diritto e,
perché no, un dovere del cittadino.
Il lavoro che tenterò di portare
avanti sarà quello di mostrare l’unione che c’è fra l’opera d’arte e il
diritto, di far vedere come essi siano così legati da diventare persino un caso
mediatico nel momento in cui il lavoro del diritto entra in conflitto con il
mondo dell’arte. Per cercare di esporre al meglio l’argomento, la mia
intenzione sarà quella di partire da Gerald Bruneau, un importante
artista/fotografo contemporaneo, raccontando brevemente della sua biografia e
concentrando l’attenzione sulle opere definite come controverse e provocatorie,
in particolar modo su un’opera a noi molto vicina: i Bronzi di Riace. Questo ci
darà lo spunto per entrare nel vivo della questione arte-diritto: nel secondo
capitolo, dopo alcuni cenni storici sulle statue e la loro provenienza, si
passerà all’analisi dell’opera Warriors
in furs, dove i protagonisti sono proprio i Bronzi di Riace, e le implicazioni
che ha avuto in ambito giuridico questo caso. Saranno presi in esame il codice
dei Beni Culturali e del Paesaggio, proprio per riuscire a districare al meglio
questo enigma mediatico. Come retroterra dell’elaborato vi è questa domanda: i
provvedimenti che sono stati applicati nei confronti dell’opera di Gerald
Bruneau dalla pubblica amministrazione, sono giusti o sbagliati? Dettati dalla
voglia di far rispettare le procedure o dalla banale e svilente censura della
provocazione per motivi socio-politici? Senza alcuna pretesa di esaustività o
verità assoluta, si tenterà di dare una risposta a questa domanda, grazie anche
al terzo ed ultimo capitolo dell’elaborato dove si analizzeranno i possibili
precedenti e casi simili a ciò che abbiamo trattato, contestualizzandoli con
ciò che abbiamo evinto dal secondo capitolo. (...)
Lasciamo che sia lo stesso Bruneau a raccontare l’accaduto.
“La
Soprintendente Bonomi ammette di aver invitato me e altri fotografi stranieri
in occasione dello shooting “ufficiale” di Mimmo Jodice, per rilanciare nel
mondo la presenza dei quasi dimenticati Bronzi, appena tornati nel Museo, e
dopo una cena conviviale dove abbiamo parlato dello spirito di questa
operazione, ognuno dei fotografi “non ufficiali” con il suo stile ha cercato di
interpretare l’invito della Soprintendenza a diffondere il ritorno pubblico dei
due guerrieri ellenici. (…) In più, la Soprintendente dice di aver apprezzato
la mia fotografia al Guerriero A, detto il Giovane, ornato di un velo da sposa,
che le ricordava la bellezza delle mie foto fatte a Paolina Borghese”.
Antonio Canova scolpisce Paolina Borghese Bonaparte come Venere vincitrice, tra il 1805 e il 1808.
La scultura in marmo è esposta alla Galleria Borghese di Roma.
Gerald Bruneau, "Paolina in vetrina" (Takeaway Gallery 2013)
(…), seguendo la mia intuizione artistica, ho pensato di passare dai simboli
della purezza transgender (un velo da sposa su un guerriero simbolo della
virilità), a quelli del gusto Camp e Kitsch della contemporaneità: un tanga, un
boa fucsia. Che non avevo portato da casa mia, ma acquistato lì per lì a pochi
isolati dal Museo, e che con solerzia erano stati vagliati, esaminati e
sottoposti ad opportuna disinfezione, per evitare qualsiasi
"contaminazione" che potesse nuocere ai Bronzi.
Nonostante
tutto, i miei scatti, si sostiene, non sarebbero stati autorizzati, perché a
differenza del velo, si trattava di oggetti orribili. Non puri come un velo,
non così allusivi. Indifendibili”.
La versione
dell’irata soprintendente Bonomi di fatto coincide:
- Ma davvero l’artista non era autorizzato da lei?
-
«Certo che no. Era febbraio. I fotografi me li aveva mandati la Regione
Calabria e lui mi ha chiesto se poteva usare il velo bianco. Avevo visto la sua
foto di Paolina Borghese avvolta nel drappo rosso e mi era piaciuta. Poi però
ci ha messo il perizoma e il boa fucsia, appena l’ho saputo lo abbiamo bloccato
e cacciato via».
- Ma le foto le aveva già fatte.
«Sì,
forse mentre mi venivano a chiamare. Altro che foto, una schifezza. La prima
che mi ha fatto vedere era piaciuta anche a me, le altre sono semplicemente
disgustose». (…)
- Però ai Bronzi ha fatto un bel po’ di pubblicità, no?
«La
pubblicità l’ha fatta a se stesso. Non escludo che il museo gli chieda i
diritti e pure un risarcimento».
Il
critico d’arte Barbara Martusciello, che ha puntualmente seguito la vicenda,
prende posizione così: “Anarchicamente, questa è arte politica. Infatti, Gerard
ha provato a dare voce ai due guerrieri tramite un inno guascone (e guastatore)
all’allegria e alla differenza, tentando di “capire cosa significhino oggi e
per chi”, sia “cercando di non insultarli nel mummificarli più di quanto non
siano già stati”, sia di “farli parlare facendone parlare”, riconsegnandoli “a
un immaginario collettivo: al di là del loro decretato ergastolo museale. (…)
non sarà un bagno nell’estetica Queer a danneggiarli. La lesa maestà di cui si
accusa Gerard Bruneau nasconde, invece, uno sdegno conservatore (meglio usare
un più efficace sinonimo: reazionario) per la lesa virilità maschia, etero dei
Bronzi e, dunque, uno svelamento di arretratezza sociale, etica, culturale: di
un Paese dove “si fa ma ancora non si dice”, di “scherza coi Fanti, lascia
stare i Santi”, dimenticati di Pax e Dico e dei diritti dei LGBTQ.
Posizione
pure condivisa da Guia Soncini: “… è noiosissimo farne sempre una questione di
generi sessuali, però perché la Paolina sì e i Bronzi no? Non sarà mica lesa
virilità molto prima che lesa opera artistica? (…) Il dubbio viene perché non
ci vuole uno storico dell'arte per sapere che l'alterazione dell'opera d'arte
esistente che la renda un'opera d'arte nuova
non è esattamente una trovata rivoluzionaria d'un fotografo teppista nel 2014.
Dai baffi fatti da Duchamp alla Gioconda al Pont Neuf o a Porta Pinciana
imballati da Christo e Jeanne-Claude: gli esempi sono parecchi e non
esattamente di nicchia. Non ci vuole uno storico dell'arte, per capire
l'intenzione del gesto, ma forse neanche una soprintendente ai beni artistici (…)
Certo, però, nessuna di queste opere includeva una svirilizzazione. Un
accessorio effeminato su un soggetto d'opera maschio. Un costume da donna
addosso a un uomo, come fossimo in un volgare e superficiale film di Billy
Wilder invece che in un contesto serio e rispettabile e davvero artistico”.
Vediamo
i termini, in qualche modo canonici, della questione. Se Bruneau parla di “gusto
Camp e Kitsch”, Martusciello introduce il sintagma “estetica Queer”, termine-ombrello reso popolare dal
gruppo di attivisti inglesi Queer Nation negli anni ’90, che non è sinonimo di
LGBT (Lesbian Gay Bisex Transgender), ma che è usato da coloro che sono
politicamente attivi, da chi rifiuta con forza le tradizionali identità di
genere, le categorie dell'orientamento sessuale come gay, lesbica, bisessuale
ed eterosessuale, da chi si rappresenta e percepisce come oppresso dall'etero-normatività
prevalente nella cultura e nella società o dalle persone eterosessuali. “Queer”
va evidentemente a complicare la complessa articolazione
Pop – Kitsch – Trash – Camp
che
supponiamo particolarmente scivolosa per l’appassionata Soprintendente Bonomi.
Si tratta infine di generi artistici di cui certamente può tracciarsi una
genealogia o – se preferiamo – una archeologia, individuarne i tratti distintivi,
i confini e le dinamiche intertestuali, ma che finiscono col cortocircuitare nel
gender (nel senso di Gender studies).
“Il
trash in sé non esiste. È solo un'apparenza che si rivela quando qualcuno vuole
negarlo. Il trash in sé non esiste. Non esiste nulla che sia trash, come non
esiste nulla che sia aulico. Il trash in sé non esiste. Siamo noi che lo
creiamo ogni volta che ce ne chiamiamo fuori”.
Senza dimenticare le questioni legate all’esemplarità, all’originale e alle
copie, alla riproducibilità. In fondo le foto di Bruneau, anche se sul versante
opposto a quello di Iodice, produce copie, simulacri, reinvenzioni stranianti.
“Originale
e copia, modello ed esemplari, archetipo e riproduzioni, unicità e serialità,
prototipo e multipli. La storia della tradizione occidentale continuamente
scarta dal binario della ripetizione di un'esemplarità auratica, astratta e
assoluta, dell'antico. Continuamente e da sempre – fin dalle sue origini –
smentisce l'idea di una inimitabile (irripetibile e non riproducibile) unicità,
si discosta da una, sacra e intangibile, staticità. Serialità, portatilità: i
classici sono, fin dalle origini, riproducibili in serie e si prestano anche a
essere ridotti di scala, fino a diventare 'portatili'. Ma quali sono i principi
teorici e le procedure tecniche che conducono dall'originale alla sua
imitazione, riproduzione, ripresa? Recensio, collatio, emendatio, editio;
ricognizione, valutazione e messa a confronto dei modelli esistenti, selezione
e produzione. Come già indicavamo nel testo introduttivo de L'originale assente, lessico e procedura
delle operazioni che portano alla riproduzione (e in genere alla produzione
dell'opera d'arte) richiamano le mosse della operazione filologica.
“Accanto
al David di Michelangelo, alla Torre di Pisa, a Paolina Borghese di Canova, il
Discobolo di Mirone – riprodotto in miniatura, nelle versioni in polvere di
marmo o in gesso – oggi campeggia sulle tante bancarelle di souvenir di Roma (e
d'Italia!), vera e propria icona pop dell'idea – plurivoca – di 'classico'. (…)
le statuette kitsch per turisti (in serie e portatili insieme) si possono forse
considerare eredi legittime delle tante copie romane del capolavoro di Mirone,
che la mostra espone e confronta icasticamente. All'annichilimento dell'originale
fa da contrappunto la proliferazione delle copie.
Un
altro punctum ci viene suggerito da Julia Kristeva: “(…) e si tratta di un mio
partito preso, che l’immagine è forse l’unico legame che ci resta con il sacro”.
In un
testo precedente, sempre Kristeva inquadrava così la spinosa questione: “C’è
nell’abiezione una di quelle violente e oscure rivolte dell’essere contro ciò
che lo minaccia e che gli pare venga da un fuori o un dentro esorbitante,
gettato a lato del possibile, del tollerabile, del pensabile. Vicinissimo ma
inassimilabile. Qualcosa sollecita, inquieta, affascina il desiderio che pure
non si lascia sedurre. Ma impaurito si distoglie. Nauseato rigetta”.
Bruneau
in conclusione, non importa se con un paradigma pop (dal quale proviene), kitsch,
trash o camp, a giudicare dagli effetti, compie un'azione sacrilega. Sempre
Kristeva evoca come territorio più vicino il disgusto per il cibo: quello “per
gli alimenti è forse la forma più elementare e più arcaica dell’abiezione (…)
spasmi e vomito che mi proteggono, repulsione e conati che mi allontanano e mi
distolgono dalla sozzura, dalla cloaca, dall’immondo.”
S’intende il disgusto per la
brutta sorpresa della Soprintendente, ma potrà mai un tribunale dirimere una
questione del genere?
Jacques-Louis
David, Madame Récamier (1800)
René Magritte, Prospettiva I: Madame Récamier di David (1951)
https://www.gaypost.it/preside-gay-scritta-muri-liceo