LA QUALITA'
DELL' ERBA
detto senza riferimento alla cannabis
James Edward Gordon, Strutture, ovvero perché le cose stanno in piedi
Ricordo molto bene un negozio, in Corso Mazzini, chiuso
ormai da molti anni. Un negozio piccolo, grigio, insignificante, ma il cui nome
è incancellabile: "La casa della gomma". Luogo di desideri infantili,
in anni in cui la plastica era un materiale nuovo, colorato, appetibile. La
gomma e la plastica avevano un buon odore e significavano i canotti, le pinne e
le maschere da sub, i palloni: "la casa della gomma" era la tappa agognata
prima delle vacanze estive.
Irrilevante il
fatto che la gomma avesse una casa e che questa ne disponesse in tutte le
varietà e multiformità, la fascinazione di un nome del genere penso debba
essere ricondotta al potere dell'endiadi, alla posizione di vicinanza, alla
suggerita consustanzialità tra casa e gomma. Passando da bambino per quel
negozio ho sempre pensato a una casa morbida, fatta di gomma, oppure a una
gomma in grado di cancellare le case. Dico quelle reali, non quelle che
esistono nel disegno. I bambini si sa, con la scusa di non comprendere bene il
confine tra realtà e fantasia, mettono in scena volentieri desideri
distruttivi. Non a caso un bambino cresciutello come Louis Aragòn, a proposito
di Anatole France, diceva "di sognare spesso una gomma per cancellare
l'immondezza umana". Una forma di nihilismo e di radicalismo serpeggiante
in molta urbanistica in attesa dell'apocalittica discesa della Grande Gomma
Divina, ispirata dalla parola di Meister Eckardt per cui "'solo la mano
che cancella può scrivere il vero".
Ma le cose (le case) possono essere cancellate? Difficile. Una volta apparse, anche solo per un attimo, anche se mero prodotto di fantasia, anche semplicemente nominate o sussurrate le cose esistono e se sono belle è per l'eternità. Sono dalla parte dell'erba e dunque in-frangibili.
Incancellabile per esempio il ruolo ricoperto per più di
trent'anni dalle vetrine di Scola (all'angolo tra Corso Mazzini e Viale
Trieste) e della Galleria Fiorentina. E più avanti, dopo il bar Gatto quello
del Paradiso dei piccoli. In una città senza musei, senza gallerie d'arte,
senza iniziativa pubblica e privata, e senza e senza e senza, quelle vetrine
hanno avuto un'importantissima funzione vicariante di educazione estetica per
più di una generazione di cosentini.
La prima inscenando con sapiente gusto scenografico le
opere dei padri dell'attuale stilismo italiano e francese.
La seconda, una vera bottega d'oriente e nello stesso
tempo un laboratorio di design, intrecciando un discorso a puntate sul
cristallo e la porcellana, tra cineserie japaneserie e cultura del moderno.
Ma si trattava pur sempre di due vetrine di negozi. Una
posizione insegnante troppo sottile per i tronfi miopi e locali archi-scrittori
(s'intenda: politici, tecnici e costruttori).
Quando negli ultimi anni ci fu una presa di coscienza imprenditoriale e cooperativa e ad es. si è costituita l'associazione "Corsomazzini", l'entusiasmo e il discorso culturale in partenza erano forti ma pure privi di interlocutori, tra gli amministratori comunali, in grado di orientare e incentivarne l'operato.
Qualsiasi politico con un minimo d'intelligenza avrebbe
potuto far propria l'headline "lo stile in una via" inducendo
quell'associazione a contribuire attivamente a un piano colore e di
omogeneizzazione delle insegne, alla creazione di una rete di servizi per il
cittadino (prima ancora che per il cliente).
Così l'entusiasmo
iniziale si è pian piano affievolito, fino agli esiti recenti dell'inevitabile
spostamento d'interessi su Rende.
Immagino che la statua di Giugno (icona preminente nel
marchio di quell'associazione) - per protesta - scenda da sopra la fontana e se
ne vada. Ma non a Nord, a fare shopping. Che prenda la via della città vecchia.
Magari per trasferirsi a Piazza Valdesi o a Piazza della Prefettura, per tener
compagnia a Bernardino Telesio.
E' proprio la mancanza di elasticità nelle case, nelle
cose e nelle persone, che si registra quotidianamente. E che duole. Mentre
persino il cemento armato ne assicura un minimo non trascurabile, e mentre a
quest'ultimo ci siamo ormai rassegnati lasciando il calore del legno al campo
del sogno, è la mancanza di questa qualità dolce negli umani che si presenta
con la forza dell'impatto.
E' per questo reiterato incidente mattutino che si è
costretti - la sera - all'amara constatazione della prevalenza del cretino.
Poiché realisticamente non è possibile passare il tempo a
rimpiangere la qualità dell'erba o ad attendere l'avvento degli intelligentoni
senza crampi mentali, si tratta di provocare a qualsiasi livello scelte leggere
e transitorie oppure di volare alto, insomma di correre il rischio del colossale.
(Detto tra
parentesi: Piazza Cappello, la G.I.L -vale a dire- l'ex cinema Italia, lungo
Busento, Via Milelli, a Cosenza come in altre città, la vituperata architettura
fascista resta l'ultima architettura accettabile e soprattutto riconoscibile.)
Elasticità e monumentalità possono andar d'accordo. Come
dimostra quell'opera di land art, quel gesto minimale e grandioso,
antifunzionale e disumano, che è il progetto Gregotti dell'università. Ed è un
peccato che non si sia più realizzato il grattacielo rendese, chè quella abbisognava
di una perpendicolare, perché la mappa mentale dei cittadini ha bisogno di
punti di riferimento, di significanti architettonici forti.
Si veda al proposito la bellissima pagina di Osvaldo Soriano
sull'obelisco di Buenos Aires ("Il manifesto", Il testimone immutabile, 5 Settembre 1987):
"...è sotto l'obelisco che ci troviamo ed è grazie
ad esso che ci orientiamo in questa città gigantesca e degradata; (...) non
abbiamo nient'altro che ci rappresenti meglio".
Nella curiosa metafora antropomorfa di Soriano,
l'obelisco rappresenta "il naso" della città. (Sempre a proposito
dell'utilità psichica e topologica del monumentale, si veda pure "la fame
di Erettèo" che Elvio Fachinelli riportava dai sogni di suoi analizzandi,
in una conversazione con "Casabella").
Occorre dire pure che per soddisfare la fame di Erettèo, di cose notevoli atte ad orientare, insomma di falli la cui significazione faccia da punto di riferimento per la mappa diciamo mentale di quel povero sbandato che è l'abitessere, quando quel monumentale si ritrova per le mani della grandeur politica e di incauti progettanti, allora è la fine della città (e della civiltà). Non è una visione apocalittica, è già nelle cose, è già successo. In altre parole, il progetto architettonico forte c'ha da essere, ma solo come lapsus d'autore: il resto deve essere necessariamente recupero e riuso degli innumerevoli "vuoti a perdere" (siamo proprio sicuri che parte del vecchio complesso ferroviario cosentino non potesse essere recuperato con altra destinazione d'uso?).
Monumentalità e leggerezza, significanti architettonici
forti e strategie di recupero, possono andar d'accordo perché entrambi legate
all'intelligenza delle soluzioni. Tutto il resto - a Cosenza - non può essere
altro che edilizia.
(In memoria
di Eugenio Anselmo)
La casa della gomma,
Il Quotidiano della Calabria, 19 Settembre 2004