domenica 19 luglio 2020

Il Precursore


Il precursore. 
Un estratto dal film di Omar Pesenti


Mons. Viganò, assessore del dicastero per la comunicazione della santa sede, col piglio dell'uomo di marketing, lascia trapelare una progettualità su i secondi, sui numeri due. Infatti è possibile rintracciare nel web un titolo provvisorio "il numero 2, l'anticipatore". Quando finalmente s'imporrà "il precursore", vale a dire 55 minuti di film-documentario, o forse di docu-drama, che contiene numerose sequenze di animazione che lo rendono più appetibile ai bambini e - perché no - alla catechesi. Con la suadente pacatezza di Ravasi, pur sapendo quanto poco si ottenga dal trarre una morale dalla storia, "Battista ci ricorda che il centro non è lui ma Cristo", un decentramento, una frase d'insegnamento per genitori ed educatori, che devono fare in modo che l'altro cresca e sia il vero attore del futuro. Dice Giovanni (3,30): «io devo diminuire e lui crescere». Assunto di base e interdipendenza ovviamente nelle corde, e nel cuore, di Papa Francesco.






(Agenzia Vista) - Loreto, 19 Maggio 2019 - La presentazione del film documentario su San Giovanni Battista 
"Il Precursore", prodotto dalla Fondazione Giovanni XXIII, Officina della Comunicazione e Vatican Media. 
La presentazione si è svolta nella Sala Paolo VI a Loreto. Presenti mons. Fabio Del Cin delegato della Santa Sede a Loreto, mons, Dario Edoardo Viganò, assessore per la Comunicazione per la Santa Sede, Renato Poletti, presidente della Fondazione Giovanni XXIII, l'attore Francesco Castiglione, che nel film interpreta Giovanni Battista, Stefania Bonatti della Fondazione Marche e Cultura e Roberto Gabrielli di UBI Banca Abruzzo e Marche.


Il Precursore Main Theme (1) - 
Original Motion Picture Soundtrack
Francesco Perri



Massimo Celani
So cosa è un precursore

So cosa è un precursore: ‘che precorre che fa presagire’. Cortelazzo e Zolli ne situano l’attestazione avanti il 1342 a Domenico Cavalca, scrittore e volgarizzatore domenicano. Nel 1342 sorse per sua cura (e le prime religiose furono meretrici da lui convertite) il monastero di S. Marta in Pisa. Sul finire dell'anno stesso fra Domenico chiudeva la sua vita esemplare. Di esempio soprattutto in questa italietta di scior avocatt, tentennoni e salvo intese, dal pronunciato schiribizzo paranoico e l'idoleggiamento della personalità forte, no al MES ché viene la Troika! vendicativi con “i Benetton” (come se non fosse una spa quotata in borsa e con 7000 posti di lavoro a rischio), trionfo di asini, buoi grassi, non guerrieri, non pensatori, non ideatori, non costruttori, incapaci d'osservazione, inabili alla sintesi.  Nella sua opera letteraria (che si può approssimativamente collocare tra il 1320 e il 1342), Fra’ Cavalca altro non fece, desumendo qualcosa dalla sua esperienza, moltissimo dagli scrittori, che diffondere sentenze ed esempî morali, con semplice ingenuità e fresca lingua toscana; "padre della prosa italiana, primo, migliore, ottimo prosatore della nostra lingua", autore di numerose compilazioni e parecchi scritti importanti (come lo Specchio di croce, la Disciplina degli spirituali, il trattato delle Trenta stoltizie) da una critica un po' facilona gli furono tolti per assegnarli all'agostiniano Simone Fidati da Cascia o a fra Giovanni da Salerno suo amico e discepolo, ma con poca fortuna (v. G. Volpi, La questione del Cavalca, in Arch. Stor. Ital., XXXVI, 1905, p. 302).


 


“Praecursore”: voce dotta latina “chi corre avanti, esploratore, battistrada, nel significato di ‘antesignano’, sul calco del francese précurseur (1530 in questa accezione) … Essere, o mio fedele, a te conviene Mio precursor (T. Tasso). 2. In senso figurato, chi anticipa nel tempo idee, concezioni, scoperte che verranno realizzate pienamente in età futura: ad esempio Leonardo è considerato p. della scienza moderna; 3. estens. a. In sismologia, p. sismici, segnali di assai varia natura (comportamento anomalo di animali, variazione dell’altezza dell’acqua nei pozzi, variazione delle costanti elastiche del sottosuolo, variazioni del magnetismo terrestre, ecc.) che precedono, in maniera ancora non bene precisata, eventi sismici. Bella l’estensione sismologica di una pratica inerente il battesimo e l’acqua: non si vorrà misconoscere la magnitudo di Giovanni Battista, precursore di Cristo? Ecco, nella mia catechistica oltre che proverbiale ignoranza, non sapevo di quell’appellativo. 
Non sapevo che Giovanni avesse spianato la strada al redentore, pure battezzandolo (o meglio, battezzandosi reciprocamente). Con l’ingenuità tipica di chi suppone che un narratore sia necessariamente da situare ex post e pure misconoscendo che quel vangelo non solo non fosse sinottico (come gli altri tre da potersi leggere assieme con un solo colpo d’occhio, evidentemente i tre evangelisti influenzandosi l’un l’altro), quanto fosse stato redatto da un discepolo attempato, già teologo navigato, durante la sua permanenza ad Efeso “Adversus haereses”, Giovanni condivide con gli altri evangelisti meno del 10 % della materia. Ignorando tutto ciò e molto altro, perché – come si usa a svantaggio degli ipovedenti - scritto a corpo troppo piccolo (al massimo quanto i caratteri dei tassi di Tan e Taeg) nei testi obbligati ma supposti accessori, di introduzione e di contestualizzazione.

In termodinamica le proprietà intensive sono quelle proprietà il cui valore non dipende dalla quantità di materia o dalle dimensioni del campione, ma soltanto dalla sua natura e dalle condizioni nelle quali si trova. Al contrario, una proprietà si dice estensiva se il suo valore dipende dalle dimensioni del corpo a cui ci si riferisce. Si fa presto a dire “dimensioni”. Sul punto mi consentirò una breve digressione.

Quasi 40 anni or sono mi trovai ad attendere in tarda serata, alla Casa del Gelso di Castiglione Scalo, nota casa/chiesa di riferimento spirituale per l’area urbana cosentina, il rientro di Pino Stancari S. J., che con ironico eccesso di confidenza usavo definire atleta di Dio (munito di Lambretta).
Bontà di Radio1-Rai, ero attrezzato con un costosissimo Nagra, all’epoca il meglio dei sistemi di audioregistrazione. L’attesa si riempì di fantasmi di lungaggini e prolissità. Ero chiamato a realizzare un ciclo di trasmissioni sulla brevitas (durata prevista di 5 minuti per puntata, sigla compresa) e pensavo preoccupato a come “tagliare” l’inevitabile e debordante eloquio di Padre Pino. Gli manifestai la mia ansia. Lui si appartò per pochissimi minuti con uno strano librone. Venivo dal liceo classico, quattro cose le sapevo e capii subito che quelli non erano caratteri greci e nemmeno cirillici. Dopo poco mi fece cenno di premere il tasto del Rec. E mi disse:
"Il figlio di Dio - Gesù Cristo - fu il sì, dice S. Paolo. L'amen. L'amen eterno. Una vita spiritualmente condotta è una vita che coincide col sì detto una volta per tutte da Cristo - figlio di Dio - al Padre. L'incarnazione del figlio di Dio è il farsi piccolo di colui che è grande, il farsi breve di colui che è eterno. Senza rinunciare alla grandezza e alla eternità. Lo spazio e il tempo sono visitati dalla presenza incontenibile. Il mistero è esattamente piccolezza dell'incontenibile". Punto.
Mi fece cenno di premere Stop. Grazie, saluti. Non c’era bisogno del Nagra, ricordo - parola per parola - ancora oggi quella dichiarazione fulminante. Il bello è che già all’epoca mi piccavo di sapere di retorica, almeno di quella verbo-visiva supposta pubblicitaria. Insomma mi stavo allenando a riconoscere l’eleganza e la semplicità della concinnitas, una metrica, una architettura armonica che è equilibrio delle parti. Mi offrì una scaglietta di liquirizia e me ne andai meditabondo, rimuginando tra resistenze e transfert che mi suggerivano di tenermi alla larga da quell’efficacissimo predicatore, salvo buttare qualche anno di lavoro già effettuato sul divano freudiano. 
§

E per completezza di esplorazione, grazie a qualche rimasuglio scolastico che devo al prof. Capodacqua (capace di farmi perdere l’anno per la sola insufficienza nella sua materia: al 5° senso, “precursore” in chimica, con funzione di attributo, detto di sostanza che interviene o si è formata in uno stadio preliminare di una reazione o di un processo chimico o biochimico e che in seguito si è trasformata in un’altra o in altre sostanze (così, per es., una provitamina costituisce il composto precursore di una vitamina). Ecco un’altra apertura metaforica di Giovanni precursore di Gesù.




Sono calabrese e, ad esempio, so che quel materiale leggero e robusto che la vulgata vuole "di cartone", o "di fibrone", era già un polimero (un precursore del polipropilene?) robusto e leggero. 
Chi scrive si accompagna spesso a una valigia di cartone, 
come quella del supplente di storia di Jonas


Alain Tanner, Jonas qui aura 25 ans en l'an 2000, 1976




Con un pizzico di serendipity, concetto che di tanto in tanto riemerge per guadagnare qualche copertina e il display delle novità editoriali[1], m’imbatto – era nel 2019 - nella presentazione del film documentario su San Giovanni Battista "Il Precursore", prodotto dalla Fondazione Giovanni XXIII, Officina della Comunicazione e Vatican Media. Conosco solo l’autore delle musiche, mio conterraneo. Reduce da una nottata televisiva interamente dedicata a Ennio Morricone, non ha più senso dire “solo” (le musiche), per dire che non so niente dell’attore protagonista o del regista. So già che non ne cercherò nemmeno i credits e che sarà sufficiente menzionare il M° Francesco Perri. 



il backstage

Sempre per la stessa condizione favorevole, ricordo una figura retorica detta hysteron proteron, che sta per “l’ultimo come primo”. Così ritorno chez Padre Pino, ne apro a caso un prezioso libriccino. E’ intitolato “Dal tesoro dello scriba. Letture bibliche e altre cose”, edito da Giacinto Marra, nel 1983. Suppongo sia un dono dell’autore. Mi soffermo sulle prime pagine. Apre con la lettura spirituale del libro di Neemia, che insieme con i due libri delle Cronache e il libro di Esdra, fa parte di quel complesso di scritti vetero-testamentari, di cui si identifica l’autore nel cosiddetto “Cronista”. Sfogliando le pagine all’indietro mi accorgo che c’è una lettera del Cardinale Carlo Maria Martini, saggiamente utilizzata a mo’ di prefazione. “Carissimo Padre Pino, con quanta gioia ho ricevuto il tuo dattiloscritto…[2]. Finalmente ti sei deciso a non essere più soltanto un espositore orale della Parola, o al più un paziente correttore ed editore di qualche mio scritto (e lo sai bene che senza il tuo incoraggiamento non avrei mai osato pubblicare le mie meditazioni). E’ vero che la parola parlata è il primo mezzo di comunicazione, e il solo usato dal nostro Maestro Gesù.
Ma se la Bibbia è un libro scritto, non si vede perché anche i suoi espositori non debbano talvolta comporre libri. (…)[3]





Nei vv. 14-15 Matteo inserisce un dialogo tra Giovanni e Gesù assente dalla narrazione di Marco. Un dialogo che forse riflette la difficoltà che creava alle comunità cristiane il fatto che Gesù, il più grande, il Messia, il Veniente, colui che avrebbe battezzato in Spirito santo, si fosse sottomesso al battesimo di Giovanni, colui che battezzava in acqua soltanto. Il dialogo consente a Matteo di dare una spiegazione a ciò nel senso dell’obbedienza reciproca dell’uno all'altro che consente il realizzarsi del disegno di Dio. In ogni caso, il testo afferma che, giunto Gesù da Giovanni con l’intenzione di farsi immergere nel Giordano da lui, ecco che il Battista si mostra esitante e anzi cerca di distogliere Gesù da questo atto. Il testo dice letteralmente che “Giovanni glielo impediva”, cioè, cercava di impedirglielo. E lo faceva dicendogli questo: “Io ho bisogno di essere battezzato da te e tu vieni a me?”[4]. 

Il Vangelo secondo Giovanni è uno dei quattro vangeli canonici contenuti nel Nuovo Testamento della Bibbia cristiana. Si presenta come la trascrizione da parte di autori anonimi della testimonianza del “discepolo che Gesù amava”, che la tradizione identifica con l’apostolo Giovanni, figlio di Zebedeo. Oggi gli studiosi fanno comunque spesso riferimento anche ad una scuola giovannea nella quale sarebbe maturata la redazione del vangelo, delle tre lettere e dell’Apocalisse (o Rivelazione o Libro della Rivelazione, che è l’ultimo libro del Nuovo Testamento) attribuite all’apostolo.
Carlo Maria Martini (cardinale della diocesi di Milano dal 1980 al 2002, gesuita, biblista e rettore del Pontificio Istituto Biblico di Roma e della Pontificia Università Gregoriana, scomparso nel 2012) ci fa riscoprire il vangelo di Giovanni, attraverso la lectio divina, metodo adoperato con successo, unitamente alla “Cattedra dei non credenti”, sia per agevolare i giovani nell’accostarsi alla Sacra Scrittura, sia per favorire il dialogo e il confronto tra laici e uomini di fede sui temi più scottanti dell’attualità del suo tempo.
Si chiede Martini, qual è il modo con cui Gesù cura la consapevolezza debole di Pietro?
Anzitutto la cura gradualmente, non pretende di fare tutto subito: «Quello che io faccio, tu ora non lo capisci, ma lo capirai dopo». Gesù quindi dice a Pietro: fidati per adesso, accetta, io so di che cosa hai bisogno e ti porterò a comprendere il mistero del mio amore[5].
Nel desiderio di cogliere il punto di arrivo della predicazione di Giovanni, dobbiamo sapere che nel suo vangelo (che è il vangelo dei simboli, delle similitudini e delle figure), la seconda parte (capp. 13-21) manifesta la prima (capp. 1-12). E soprattutto nei discorsi dal cap. 13 al cap. 17 - là dove si dice di Gesù: «Adesso non parli più in parabole, non parli più in similitudini» - che dobbiamo cercare e trovare il senso dei segni che precedono. Tra i discorsi prendo come punto di riferimento il testo di Giovanni 15, 15: «Non vi chiamo più servi ma vi ho chiamati amici». Qui viene espresso concretamente il punto di arrivo della disciplina spirituale a cui Giovanni sottopone il discepolo: il Verbo è ricevuto tra noi nell'intimità misteriosa dell'amicizia.[6]
Il termine «amico» è raro nel Nuovo Testamento: lo si usa per indicare situazioni profane della vita. Giovanni è l'unico evangelista che con il termine philos, philein designa il rapporto con Cristo; perciò può essere interessante approfondirne il significato e domandarci quali siano in Giovanni le figure di amici del Signore, che egli concretamente ci mette davanti per mostrare in maniera plastica dove ci vuole condurre[7].
Ci accorgiamo allora che il quarto vangelo ci presenta una galleria di ritratti di amici del Signore, che approfondiscono ciascuno un aspetto dell'intimità col Verbo tra noi.
Sulla scia che oggi si direbbe barthesiana, ecco la lettura di Carlo Maria Martini.
Ho individuato soprattutto sei nomi.
- Il primo che ci viene presentato è «l'amico dello sposo», cioè Giovanni Battista (3,29), che gode per la prossimità dello sposo. Gode, pur se non ne vede chiaramente la presenza manifestata, pur se resta fuori dalla porta, perché, come egli afferma, «io devo diminuire e lui crescere» (3,30) C'è qui un aspetto importante dell'amicizia con Gesù, che sarebbe utile paragonare con la figura di Nicodemo. Mentre Nicodemo è tutto preoccupato di sé, della propria situazione, della propria raggiunta rispettabilità, Giovanni è colui che gode perché l'altro si afferma: l'altro cresce e lui diminuisce.
- Il secondo esempio di amicizia è quello dei due discepoli di Giovanni che Gesù accoglie nel suo eremo: «Venite e vedete. Vennero e videro e stettero con lui tutto quel giorno» (1,38 ss.). È un altro aspetto dell'amicizia con Gesù: lo stare con lui, a lungo, volentieri, il godere con lui nella solitudine.
- La terza figura è duplice: Marta e Maria. Ciascuna rivela un aspetto particolare del rapporto dell'amicizia. Maria (contrariamente a ciò che ci presenta Luca) esprime il servizio amoroso: ella è colei che due volte unge i piedi di Gesù. Marta è quella che gli va incontro familiarmente, gli parla con franchezza e semplicità in un dialogo pieno di ascolto e fiducia[8].
- La quarta figura è Lazzaro, di cui è detto espressamente: on phileis, «quello che Gesù amava» (11, 3; 11,36), o philos, «l'amico» di Gesù (11, 11). Mentre negli altri casi si può vedere qualche esplicitazione dell'amore per Gesù (Giovanni gli prepara la via, i due discepoli amano stare con lui, Maria lo serve, Marta gli parla familiarmente), in Lazzaro è difficile cogliere quale sia l'aspetto dell'amicizia che viene sottolineato, perché Lazzaro non fa niente: non parla, non agisce, non si sa chi sia, non ha un carattere preciso. Forse la caratteristica tipica di questa amicizia è data dal fatto che Gesù fa tutto. In fondo il tratto più profondo dell'amicizia è lasciarsi scegliere: «Non voi avete scelto me ma io ho scelto voi» (15, 16).[9]
- La quinta figura, tra tutte preminente, è il discepolo che ascolta e che fa strada: si tratta del «discepolo che Gesù amava», ricordato parecchie volte (13,23; 19,26; 21, 7; 21,20). Una figura che ha nel messaggio del quarto vangelo il valore di un punto di arrivo. Essa ci fa vedere come la strada di accoglienza del mistero dell'Incarnazione ci porti fino a quell'intimità col Signore descritta soprattutto nell'ultima cena e nella scena finale del vangelo (cap. 21).
- Aggiungiamo, infine, una figura per la quale si usano gli stessi verbi philein e agapan: Pietro.




Nel dialogo del capitolo finale (21, 15 55.) - che è forse il luogo neotestamentario dove sono ripetuti più volte i verbi philein e agapan -, Pietro è immagine dell'amore apostolico (mentre il «discepolo che Gesù amava» è piuttosto il tipo dell'intimità mistica col Signore, colui che ha capito profondamente il mistero del Verbo); cioè dell'amore che, avendo intuito il mistero, si dona al servizio apostolico, al servizio ecclesiale.
Concludendo, Giovanni ci spinge verso l'acquisizione di un'intimità col Signore davvero nuova, un'intimità, un rapporto che dev'essere coltivato, ma che in verità ci è preparato come dono da Dio stesso. Si aggiunga che «Agostino ama Giovanni perché è il discepolo caro al Signore, l’evangelista della carità, che ci presenta la misericordia incarnata venuta verso la nostra miseria»[10].


§

Con un po’ di azzardo ma non senza causa, intreccio qualche considerazione di Roland Barthes. A partire da una lettera a Georges Perros del 22 settembre 1957:
Non faccio altro che guardare il mare, ma bisognerebbe aggiungervi ben altro e io sono arido. E’ pazzesco che io debba essere umido per essere così infelice di essere arido. (…)
E poi, del 19 agosto 1958, da New York, allo stesso destinatario:
Penso spesso a lei. Soggiorno terribilmente movimentato sul versante interiore. Spero, nonostante me stesso, di aver comunque registrato la superficie – stupefacente – delle cose. (…)[11]
Fin qui si tratta di modesti paradigmi indiziari, ovviamente da inscrivere in un poderoso corpus semiologico (hai forse detto teologico?). Sforzandosi di tenere un discorso senza imporlo.
“Si è contraddetto senza rifiutare la storicizzazione, in una calma, non accusante, distanza; senza la spregiudicata, perché sbrigativa, autocritica, e senza sacrificare o deferire all'ideologia (e alla “morale”) del divenire; è stato in campo senza fare del suo discorso, del suo metodo, dei suoi strumenti un “dominio” proprio e chiuso, riservato: d’élite, o specialistico” [12].
Anche Susan Petrilli, e non è la sola, è tentata da una lettura dell’unicità dell’amore e dell’atopia di chi ama [13]
(L'unicità dell'amore)
“Il discorso d'amore è centrale nella riflessione di Roland Barthes. Quale amore? Quello erotico dei Frammenti di un discorso amoroso (1977a), quello filiale de La camera chiara (1980a), quello di Barthes di Roland Barthes (1975a), o quello dell'amicizia: l'acoluthia, il corteo di amici, conforto del vivere, di cui Barthes parla in un saggio del 1978 intitolato L'immagine. Quale di questi? (cfr. nota 15)
L'Eros o l'Agape? L'amore passionale o l'amore razionale?
Il punto centrale della questione è che l'amore è unico. È questa la tesi di Jean-Luc Marion, è questa la tesi di Emmanuel Lévinas, è questa la tesi di Roland Barthes”.[14]
“Ciò in due sensi. L'amore è sempre unico, non solo quello "erotico", ma anche quello materno: dovesse avere una madre dieci figli, ogni figlio è da lei amato come figlio unico, e a nulla vale la consolazione della perdita di uno con l'argomentazione che ce ne sono altri nove, come a nulla vale la consolazione per la perdita della donna amata con l'argomento che ce ne sono tante altre.
Ciò vale anche per l'amore di Dio. Ogni individuo è amato da Dio Padre come figlio unico. D'altra parte, sia detto tra parentesi, se Dio è amore, Dio è unico: cioè, come dice Lévinas, il monoteismo non è una caratterizzazione aritmetica.
L'amore in quanto rivolto a un "unico al mondo" è, in questo senso, sempre unico”.
(L'atopia di chi ama)
“Barare con la lingua, non farsi trovare mai là dove si è localizzati, individuati, cercati: è questa l'indicazione di Roland Barthes in Lezione. Ma ciò è possibile fino a un certo punto e certamente non basta la volontà, la determinazione, l'intenzione. Non è nelle mani del soggetto, in quanto soggetto, in quanto centro decisionale, questa possibilità. Si tratta, invece, di qualcosa che accade e accade in maniera impersonale, come il fatto che piove. Accade a colui che, dice Barthes, non scrive più in maniera transitiva, come soggetto attivo, come scrivente, come autore-autorità; che non ha più, direbbe Michail Bachtin, una parola diretta, oggettiva, sua; che non scrive più a nome proprio.
La possibilità di sottrarsi alla lingua accade quando la scrittura non è più transitiva, assume la forma di scrittura intransitiva, non è scrittura di scrivente – il giornalista, il saggista, il pubblicista –, ma scrittura di scrittore. Scrittore, dice Bachtin, è colui che indossa la veste del tacere; e il tacere è l'unico modo per sottrarsi alla lingua fascista, che, fatto silenzio, vuole sentirci, vuole definire, determinare, distinguere.
Lo scrittore, dunque, come capace di tacere, e dunque di eccedenza, di spostamento. Ma anche l'innamorato, chi ama, lo è; e anche colui che ama, poiché ama indipendentemente da una scelta, da qualsiasi deliberazione, dalla propria volontà, riceve, meglio si potrebbe dire, subisce, la grazia dell'amore. Non è casuale che "innamorato" suona come al passivo, "essere innamorato".
Amare è, direbbe Lévinas, un movimento senza ritorno, senza guadagno, movimento a senso unico, in cui il soggetto come ente attivo si trasforma, invece, in soggetto nel senso passivo del termine, in essere soggetto. Ci si ritrova scrittori come ci si ritrova innamorati”.[15]

“Ho parlato della lotta dei linguaggi, del Combattimento delle Immagini Màche. Ho detto che la principale deriva lontano da tali combattimenti, è la sospensione: Epoché. C’è un’altra possibilità di liberazione: l’Akoluthia. In greco, Mache designa il combattimento in generale, ma anche in un senso tecnico, che concerne la logica, la contraddizione in termini (in cui si riconosce la trappola, nella quale lottando con le armi del linguaggio si cerca di rinchiudere l’altro). In tal senso, Màche ha un antonimo: Akoluthia, il superamento della contraddizione (interpretando: il togliere la trappola). Ora, Akoluthia ha anche un altro senso: il corteo d’amici che mi accompagnano, mi guidano, e ai quali mi abbandono. Vorrei designare, con questa parola, quel campo raro in cui le idee s’imbevono di affettività e gli amici. Grazie al corteo con cui accompagnano la nostra vita, ci permettono di pensare, di scrivere, di parlare. Gli amici: per loro io penso, essi pensano nella mia testa”.[16]
Vorrei tornare ancora un momento sulla complessità, l’attualità e la bellezza del titolo: 
“Il precursore”. Non mette in gioco una temporalità necessariamente cronologica, non allude certo a una araldica e tanto meno ecclesiastica, e nemmeno necessariamente persone, autori.
Per quanto mi riguarda, quella dei precursori, e dell’influenza, del fraintendimento, dell’agonismo, della tradizione e del canone, sono dinamiche che rinviano all'elaborazione teorica e alla critica letteraria di Harold Bloom.
Chi mi conosce non avrà difficoltà a ricordare quanto sia fissato con “quest’ermo colle”, un sintagma che pigramente si suppone parte dell’Infinito leopardiano e che invece da molti anni uso tirar fuori dalla valigia di cartone, a sorpresa, per spiazzare l’uditorio più vario, almeno dalle scuole medie e dai relativi docenti nei corsi di formazione, al target universitario delle lauree triennali e - indifferentemente – magistrali.



E l’ermo colle come sta, come sta?


A Gerardo Greco, non tra i peggiori conduttori tv nonostante l'aria sicura che cela una certa giornalistica coglioneria, vorrei regalare One and Three Chairs di Joseph Kosuth. 



Perché, stando all'impianto kosuthiano (o peirciano), l'Infinito:
- è un oggetto, anche se testuale;
- è una definizione, come una delle tante parafrasi di un libro scolastico che ci ha fatto disamorare della poesia. Anche a voler stare alla lettera, si tratta di un sentiero che gira sotto il muro di cinta protetto da siepe. Colle solitario (“ermo” come “eremo”) caro quanto la siepe che ostacola lo sguardo;
- s’inscena in un luogo non fisico ma inteso come costruzione retorica. Più che un’immagine è un inscape (secondo G.M. Hopkins), un visual (secondo Dominique Quessada). Così precisa Quessada: “qualsiasi visual pubblicitario è così - letteralmente - la traduzione o la perifrasi di un testo assente. Esso rinvia implicitamente a un testo che lo costituisce in quanto tale e ne determina il significato. In questo modo il visual pubblicitario è un’immagine senza immaginario, asservita operativamente e tecnicamente a un testo”[17].



Questo è il colle e questa la siepe, che da tanta parte (…) il guardo esclude (…) Ma sedendo e rimirando, interminati / Spazi di là da quella (…), semmai protagonista è la siepe, non il colle. Un dispositivo retorico per non vedere una cippa o – se preferite il trito scolastico e il melenso – vedere con gli occhi dell’immaginazione. Insomma un "instress", un ritmo, e un "inscape", un senso fulmineo dell'evocare appieno il mondo, il paesaggio correlabile alla marca Leopardi.
L’ermo colle altro non è che un paesaggio silenzioso, un’atmosfera pensosa. E come mai a nessuno viene in mente che “sempre caro mi fu quest’ermo colle” sia un endecasillabo, perfetto, immutabile, con fondazioni robuste e fondamenta con l’elasticità del cemento armato, resistente agli anni e alle scosse? “E come sta?” chiede il bravo conduttore. Bene, detto con un debito intertestuale insaputo ma grosso quanto una casa che non traballa. 
La questione mi venne confermata molti anni addietro da Maria Corti, quando l’intervistai per RAI3:

(...) “Ahi, di misero amante van desiri! /
Donna, s’esser non può, non vi rincresca /
Che da quest’ermo colle io vi sospiri”.

Galeazzo di Tarsia compose questo sonetto, presumibilmente a Belmonte Calabro, all’incirca 270 anni prima del poeta di Recanati. Si tratta di coincidenze? Per niente. Lo dimostra il fatto che il buon Leopardi era un eruditissimo frequentatore di classici e di poeti forti precursori. 



Non ci sarà forse qualche edizione del Canzoniere tarsiano nella ricchissima biblioteca di Recanati? Non è un caso o una coincidenza e lo avvalora la “posizione” del colle: in apertura del componimento leopardiano, in chiusura del sonetto tarsiano. Evitiamo equivoci: non sto dicendo che “l’ermo colle” sia quello di Belmonte, chessò il mausoleo dedicato al quadrumviro Michele Bianchi, certo pure bello e solitario (se non fosse abbandonato). Sto solo sostenendo una cosa che è banale tranne che per il mondo della scuola: è che la letteratura si fonda sulle influenze, i prestiti, le citazioni, l’agonismo tra testi, insomma l’intertestualità. E poi, dovrebbe essere pacifico che lo scrittore il più delle volte sembra procedere come un rigattiere, che rovista dentro il campo del già detto e del già scritto, alla ricerca di un oggetto speciale che si può nascondere nel mucchio di libri sulla sua scrivania oppure tra quelli del tutto dimenticati. E invece noi tutti – perepé perepé - a tromboneggiare sul significato (prevalentemente stereotipi, dicerie, luoghi comuni) e sulla creatività invece che guardare al ritmo, al metro, alla musica, a una giusta collocazione tra chi c’è prima e chi viene dopo. Così lo stesso Leopardi, dipinto immancabilmente come misantropo, sorprenderebbe vederlo alle prese con una “social catena” o con la catena significante, magari a Napoli col purista Basilio Puoti e un giovanissimo De Sanctis, a polemizzare con la Crusca, prendendosela con i «pedagoghi» (cioè con i 'pedanti'), con i moltissimi che «non lasciano che si scriva». Non ci sorprenderebbe scoprire un Leopardi sufficientemente anticanonico? La parola 'canone', oltre a quello musicale – ci ricorda Andrea Campana - ha molto a che fare con i concetti di 'rifiuto', 'scarto' ed 'esubero': “costruire o anche semplicemente proporre un canone significa automaticamente rifiutare, scartare, considerare qualcuno in esubero, in eccesso, e dunque tagliarlo via”. E invece, tanto è personificato, chiediamo all’erede Vanni: come sta, come sta il Colle? Ha qualche lesioncina? Sì, sul muro. Oh, mi dispiace [18].



Pur tenendo conto “della forza individualizzante del dimostrativo (quest’ermo) che lo precede” (come per anni ci hanno inflitto le scolastiche note a pie’ di pagina), l’equivoco è proprio “questo”. 

Il colle è un altro. Sentite qui:

Ignuda folgorar su l’erba fresca, /
o sotto molle e prezioso velo? / … /
Donna, s’esser non può, non vi rincresca /
Che da quest’ermo colle io vi sospiri.

Nel caso di Leopardi si naufraga in tutt'altra immensità, ma l’ermo colle resta pur sempre una citazione. 

Maria Corti mi fece notare, anni addietro, che c’era qualcosa di leopardiano nel suo canzoniere. Se perlomeno il colle di Leopardi è tarsiano, Galeazzo di Tarsia aveva una impronta leopardiana: visto che la cosa può essere reciproca? 

La grande filologa (la sua mente andava pure all’altra poeta “meridiana” Isabella Morra) si riferiva evidentemente a quell'alone tragico, al senso della solitudine e alla drammaticità della sua vita (venne ucciso a 33 anni). Non fu un poeta cortigiano, petrarchista ma sempre originale, influenzato da Bembo, Muzio, Della Casa e Tansillo, la sua poesia è asciutta e pietrosa. 
Proprio non la pensava come Giulio Ferroni che ne stigmatizzava “il codice ristrettissimo”, il “diretto confronto col modello bembiano, portato all’estremo come blocco gelido”. 

Galeazzo di Tarsia, signore di Belmonte, usava vessare i suoi sudditi e non era certo uno stinco di santo. Ma la sua poesia amorosa, petrosa e raffinatissima, trasmette un vago retrogusto amarognolo. Il reale, l’impossibile a dirsi, se ci si prova evidentemente risulta lapidario.
Violento, infelice, snob, modernissimo, Galeazzo fu relegato - nella vita - a Lipari e nelle antologie scolastiche nascosto tra i tanti come minore. Un po’ di dignità gliela restituirono Ponchiroli e Baldacci negli anni ’50 e poi la Corti e Cesare Bozzetti in anni a noi più vicini. Ma la questione del successo del signore di Belmonte era chiara:

Non perché chiaro in queste parti e ‘n quelle
Passi il mio nome a le future genti
(…)
Di lode no, ma di mia vita calme:
Ecco lo stile se a pietà non vale. [19]

Peccato però che, tra le mille celebrazioni dell'ermo colle leopardiano, nessuno ma proprio nessuno si sia ricordato del precursore di Belmonte Calabro.







La Kabbalah - che in ebraico vuoi dire "ricezione" – secondo Giorgio Israel - è il complesso delle dottrine esoteriche e mistiche dell'ebraismo. Essa mira a creare un contatto più diretto e più intimo col divino, reso possibile attraverso un disvelamento che segue molteplici vie: dall'analisi delle Sacre Scritture, la Torah, per scoprire il significato recondito e profondo delle narrazioni in essa contenute, fino alle pratiche di elevazione estatica volte ad avvicinare la presenza divina. La Kabbalah, che ha avuto un ruolo determinante nello sviluppo delle concezioni del messianismo e della redenzione nella storia del pensiero religioso ebraico, ha lasciato un imponente corpus letterario che, da poco più di mezzo secolo, è stato riscoperto ed è oggetto di edizioni critiche rigorose.[20]
Questa opera è uno scritto gnostico ed il suo autore confessa con ciò la sua gradita appartenenza alla scuola ebraica di Paolo, di Luca, di Giovanni e della gnosi qumraniana.
«Il mio interesse è per ora unicamente rivolto ai poeti forti, alle figure maggiori che hanno avuto la tenacia di lottare, anche fino alla morte, coi propri precursori forti. 
I talenti deboli tendono a idealizzare; le figure di vasta immaginazione invece si appropriano dell'esistente. Ma niente si ottiene per niente, e l'auto-appropriazione comporta dunque enormi angosce di indebitamento, poiché quale autore forte vorrebbe riconoscere ch'egli non è riuscito a creare con le sue sole forze?»[21].

La parola "canone" ce la ritroviamo in Hofstadter: è il canone musicale, quello del signor Bach, sagacemente piegato a un discorso sulla ricorsività (22). 
Ma la parola "canone" è pure molto presente in Harold Bloom (critico e teorico della letteratura, quello di Agon, dell'angoscia dell'influenza, della tradizione ermetica, della Gnosi e della kabbalah, del fraintendimento). 
Il canone letterario è il complesso delle opere al quale una comunità riconosce un valore particolare ed esemplare. All'interno della sua tradizione la comunità riterrà, quindi, necessario che quelle opere vengano conosciute e trasmesse.
In pillole: non esistono poeti ma solo "interpoeti" (canonici o anticanonici) e questi scrivono nell'angoscia di essere influenzati dai poeti forti precursori. La scrittura in tal senso risulta un misreading (una mislettura e dunque un fraintendimento) di chi ci ha preceduto e influenzato. Siamo condannati a essere tardivi ma di questa tardività, di questa posteriorità dobbiamo armarci, farne un plus e non un minus (per la nozione di posteriorità, si rinvia al Sigmund Freud del Nachtraglich: l'azione dell'interpretazione può modificare il presente di un soggetto (il suo sintomo) perché, causalmente parlando, modifica il passato).

"Si è o si diventa ciò che si legge" e "quello che sei è l'unica cosa che puoi leggere".
La prima formula consacra il primato di qualsiasi testo su qualsiasi lettore; la seconda fa di ogni lettore il suo proprio testo. E nel gioco tra queste due possibili formule che si risolvono le complessità della formazione dei canoni, poiché entrambe sono abbastanza vere.
Ogni atto di lettura è un'operazione di tardività, tuttavia quello stesso atto è pure difensivo, e in quanto meccanismo di difesa fa necessariamente dell'interpretazione un fraintendimento [24].

Più in generale e molto semplicemente, Gadamer sottolinea la dimensione intertestuale, vale a dire la principale caratteristica del linguaggio, che è quella di avere legàmi:

"Nessuna parola è singola, nessuna parola comincia con se stessa. Abbiamo sempre ascoltato in precedenza. Abbiamo sempre già detto qualcosa. Abbiamo sempre ancora qualcosa da dire".

Hans G. Gadamer, 1982





[1] Oscar Farinetti, Serendipity: 50 storie di successi nati per caso, Slow Food Editore, 2020
[2] Ho un attimo di esitazione, ho l’impressione di star svelando un segreto o comunque una consuetudine tra il frate predicatore con la Lambretta che da anni batte la Calabria in lungo e in largo e il cardinale Martini, di star turbando una certa intimità. Poi mi sovvengono altre parole, mutuate proprio dagli approfondimenti sull’idea di reciprocità del “lasciar fare”, senza protagonismo alcuno, di Gesù e del Battista, secondo un’idea antica, laica ma irenica, di akolouthìa.
[3] Pino Stancari, Dal tesoro dello scriba, Letture bibliche e altre cose, Marra Editore Cosenza, 1983
[4] Luciano Manicardi, 12 gennaio 2020 Mt 3,13-17 Battesimo di N.S. Gesù Cristo https://www.monasterodibose.it/preghiera/vangelo/13595-la-fiducia-che-lascia-fare
[5] Carlo Maria Martini, Ritrovare se stessi, Centro Ambrosiano - Edizioni Piemme, 1996

[6] Carlo Maria Martini, Il Vangelo secondo Giovanni, Borla,1981

[7] Il Vangelo secondo Giovanni-Lettere di Giovanni, traduzione di Salvatore Quasimodo e Massimo Bontempelli, SE, 2005

[8] Come tutti, anche Gesù aveva zii e cugini. Elisabetta era la cugina di Maria, Zaccaria suo marito. Il Vangelo di Luca ce li presenta come due persone molto anziane che hanno sempre desiderato di avere un figlio; un giorno un angelo apparve a Zaccaria nel tempio e gli annunciò che il loro desiderio era stato esaudito: Elisabetta cessò di essere sterile e diede alla luce Giovanni Battista. Dunque Giovanni, figlio di Elisabetta e Zaccaria, è cugino di Gesù. Nasce sei mesi prima di Lui. Tecnicamente, prosaicamente, Gesù e Giovanni sono cugini di secondo grado. Marta è sorella di Maria, la padrona di casa: “Marta, Marta, tu ti preoccupi e ti agiti per molte cose…
[9] Mi rendo conto dell’assoluta eterodossia, e se vogliamo stramberia, di un accostamento: il semiologo Roland Barthes e Giovanni Battista, vale a dire un’Ersatz del Cristo. Forse più soft l’accostamento tra Martini e Barthes, ma solo apparentemente, per chi sa riconoscere i santi. Cfr. Stefano Jacomuzzi, Luigi Cappa Bava, Del come riconoscere i santi, SEI, 2001
[10] AGOSTINO, Commento al Vangelo di San Giovanni, (Opere di Sant’Agostino, III: Discorsi, vol. XXIV), Città Nuova, Roma 1968.
[11] La sottolineatura è mia. Roland Barthes, Album. Inediti, lettere e altri scritti, Il Saggiatore, 2016 (Éditions du Seuil, 2015).
[12] Gianni Scalia, A seguire, con Barthes, in “In forma di parole”, libro secondo, Elitropia, 1980 (p.383).
[13] Con Roland Barthes. Alle sorgenti del senso, a cura di Augusto Ponzio, Patrizia Calefato, Susan Petrilli, Meltemi, 2006.
[14] Susan Petrilli, Con Roland Barthes, op.cit., p.459
[15] Susan Petrilli, ibidem
[16] Roland Barthes, L’immagine, traduz.it di Anna Rocchi Pullberg, in “In forma di parole”, libro secondo, Elitropia, 1980
[17] Scopo di questo volume è esporre in modo semplice e accessibile i capisaldi del pensiero kabbalistico nella sua evoluzione storica, mettendone in luce le molteplici interazioni con il pensiero religioso, filosofico e scientifico europeo. Giorgio Israel, La kabbalah, il Mulino, 2005
[18] Harold Bloom, L' angoscia dell'influenza. Una teoria della poesia, trad.it, Mario Diacono, Abscondita, 2018 (Feltrinelli, 1983).
[19] Harold Bloom, La Kabbalah e la tradizione critica, Feltrinelli, 1981 (Kabbalah and Criticism, A continuum book, The Seabury Press, 1975).
[20] Dominique QuessadaL’esclavemaître. L’achèvement de la philosophie dans le discours publicitaire, Editions Verticales / Le Seuil, 2002
[21] Il riferimento è a una memorabile puntata di Agorà, con Gerardo Greco che intervistava Vanni Leopardi, discendente e custode della storica casa di Recanati. Renata Adriani Miceli, in “La storia delle cose”, Cronache delle Calabrie, 7 novembre 2016.
[22] Douglas R. Hofstadter, Gödel, Escher, Bach: un’Eterna Ghirlanda Brillante, Adelphi, 1984
[23] Massimo Celani, Questo e quello. "Quest'ermo colle" tra Galeazzo di Tarsia e Giacomo Leopardi https://docs.google.com/presentation/d/14EJ5D4Qd9P7WtQj7OPzFlrS77VUNV3JfFZj5WlqJyVM/edit?usp=sharing
[24] Harold Bloom, La Kabbalah e la tradizione critica, op.cit.

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