Ou. Riflessioni e
provocazioni, volume VI, n.1 ("Groucho Marx. Il Witz come re-inscrizione
del limite"), Abramo, 1997
Così parlò Kamasutra
ovvero, Marx nel terziario avanzato
“O quest’uomo è
morto, oppure il mio orologio è fermo”
Groucho
“Dopo di ciò, assoluto totale”
Anonimo
“Non ho nessuna difficoltà a nascondere la verità” -
disse l’Amministratore Delegato in un memorabile confronto televisivo coi
dipendenti già da qualche anno senza stipendio.
Lo Stesso, pochi mesi prima, aveva minimizzato con nonchalance - “ma quale crisi economica,
è solo una momentanea mancanza di liquidità!”. Con lo stesso candido tono di
preterizione di Pietro Vanni
(suvvia...erano solo merende !), più o meno nello stesso periodo in cui
Michele Greco detto il Papa si chiedeva
“in cosa ho mafiato io ?”.
“Non ho nessuna difficoltà a nascondere la verità”
sembrò all’epoca un lapsus, un tradirsi lampante, l’irruzione della verità
sulla scena. Atto mancato, discorso riuscito. Colui che lascia in tal modo
sfuggire la verità - avrebbe commentato Freud - è in realtà felice di gettare
la maschera.
Oggi, col senno di poi, aprés-coup, nachträglich (fingendo - al
fine di far bella figura - di attingere al sacro tedesco e dunque mal tradotto
testo freudiano, oltre che a quello lacaniano), appare piuttosto un enunciato
umoristico, un motto di spirito.
La dinamica lapsus > Witz abita il testo freudiano
sin dai tempi familionari. “Come è
vero Dio, signor dottore, stavo accanto a Salomon Rothschild e lui mi ha
trattato proprio come un suo pari, con modi del tutto familionari.”
Il dubbio mi alberga già dalla giovanile lettura del
saggio freudiano sul motto di spirito:
si trattò di creatività di Heine o piuttosto di
antenne ben drizzate sull’impadronanza di linguaggio di un anonimo callista e ricevitore
del lotto ? Il dubbio era ovviamente piuttosto ingenuo. La testualità non è
questione di autore ma di circolazione e di traffico: “essa è ciò che può
essere fatto senza che colui che lo fa possa rivendicare su di esso il minimo
diritto“ (sto abusando di Blanchot che chiosa le tesi di Eluard sulla poesia
involontaria).
Che il fattapposta, il come-si-chiama, il parlessere,
il manquessere (poiché - santo Lacan
- immancabilmente nel linguaggio s’incespica e si manca), resti dopotutto un
animale (sul quale il linguaggio è disceso per segnarlo indelebilmente), non
determina che quanto segue sia un bestiario. Ché vorrebbe dire stare sulla scia
editoriale di chi se l’è cavata fin troppo bene lucrando col moralismo socio (o
etno ?) linguistico. E in ogni caso i bestiari non sono che cosa di tutti,
anonimi e collettivi best di una
poesia sottratta ad ogni appartenenza individuale.
Gli stupidari non sono altro che diari in cui giorno
per giorno si annotano sedimenti, precipitati, “dispersioni” e “disseminati”
(chimica derridiana), thesaurus di
enunciati surdeterminati da parole-tema le quali evidentemente offrono una
certa stoffa e nelle quali alcune sillabe possono fare lo sgambetto alle altre
(la grazia delle metafore di “stoffa” e di “sgambetto” ovviamente sono di
Saussure, Les mots sous les mots).
Quanto qui è sedimentato ed offerto è dunque umorismo
polifonico di una comunità uditoriale
prim’ancora che editoriale, pratica collettiva di slittamento col significante,
di chi - abitando il linguaggio e costruendo il mondo con esso - usa servirsi
del gioco del significante non per significare qualcosa ma per ingannarci su
ciò che ha da significare. Un gioco che pure scivola al senso.
Dimentichi di papà Hjelmslev (“la comunità
linguistica è libera di introdurre nuovi segni e di abolire segni antichi”), di
zio Freud (per il quale ogni atto mancato è un atto perfettamente riuscito) e
del nipotone Lacan (“non c’è padronanza”), gli ironici bacchettoni potranno
ridacchiare dei sostantivi appiccicati, dei verbi intransitabili più che
intransitivi, delle congiunzioni sudaticce e delle forme flesse distese sui
binari con intenti suicidi. Ma non è per questo e soprattutto non è per loro -
evidentemente duri di comprensorio -
questa che Eco definirebbe scorribanda glottogonica. Sintagma misteriosofico
che s’impone per potenza evocativa (quel mondo, quel Welt costruito col
linguaggio a cui si accennava poc’anzi; quanto al letterale, vada per la
scorribanda ma per quel glottogonico ... è lecita l’esclamazione: non ne ho la più squallida idea!).
“Raro è quel libro, che non sia un centone / di cose
a questo e quel tolte e rapite ...” rappava Salvator Rosa. Qui è da intendere
alla lettera e senza marca di negatività. Ma poiché il tono della faccenda
resta un poco nel naso, volentieri ridondo: saranno questi e quelli petits rhétoriqueurs helzapoppinoidi,
una vispa famigliola di rhétoriciens
applicati, alle prese con un grammelot esperantistico, o una mera masnada di
rusticoni sul lastrico, con tanto di carotame, cavolame e altro linguistico
fastfoodale - così editando, con la scusa di Groucho - da sgombrare ?
So solo che, in quasi dieci anni di esperienza nel
terziario feudale, il quartiere abitualmente torsolesco mi apparve dolce di
luci.
Se
son fiori fioriranno
ovvero,
leggere tra le rime
Questa è la scintilla che ha fatto
traboccare il vaso
Smettila di fare l’attaccabriglie
!
Via San Quasimodo
Quanto segue mette in gioco una dinamica poetica. La
giusta distanza tra lingua comune e lingua alta, tra il molto al di sopra della
medietà e il molto al di sotto. Direbbe Barberi Squarotti che non si può fare
poesia se non ironizzandone continuamente la medietà, facendo cioè riferimento
costante alla sublimità impossibile, all’eccezionalità ormai vietata.
Ecco la splendida terrestrità - solo apparentemente
tautologica - di se son fiori fioriranno o del sole
in bocca (le ore del mattino hanno il).
Nella nostra epoca non è più possibile far poesia rispettivamente con la
rosa o con l’oro.
Non sfugga - nel primo caso - la citazione del Salmo
CIII (Hominis dies sunt similes faeno,
sicut flos agri ita florent) e in entrambi i casi la profonda ironia
antibucolica, pure presente nella definizione del sempre in agguato molestatore
campestre: l’abbracciante agricolo.
Si dispiegano dunque le truppe contro la catacresi,
contro la metafora consunta. Tant’è che qualcuno, riferendosi a un processo di consuzione, si spinge a registrare la
consunzione della stessa consunzione. Si potrà infatti consuggere con piena soddisfazione dalla scintilla che ha fatto traboccare il vaso. Prova concreta che
i vasi infranti della Kabbalà erano e restano pieni di esplosivi. Che vale più
quella insipida goccia, surgelata quanto il consunto Bastian (chi era costui?).
Il baston contrario suggerisce dunque
pure l’evenienza di mettersi sempre tra le ruote.
Sempre sullo stesso versante, segnalo un antonimo che
nessun “sinonimi e contrari” potrà mai riportare. Se l’attaccabrighe vuole la
rissa, l’attaccabriglie opera - al
contrario - per sedare gli animi impetuosi. Ma persino il cheto attaccabriglie
non può fare a meno di ribellarsi a quell’insipido aggettivo autoadesivo, a
quel pallore da sempre riferito all’idea.
Nei nostri tempi metropolitani, le idee o sono grandi
o sono squallide (non ne ho la più
squallida idea).
Le
foglie elettroniche
(una versione non ufficiosa)
Il linguaggio dei ciechi: la
scrittura Bernoulli
Nell’ottica
del dos de
Te la mando
per posta celebre
Qui si conta di un cortocircuito. Quello della
tecnologia, in particolare della koiné informatica - lingua comune ma pure
soggetta a rapida obsolescenza, con la poesia come tenuta rispetto al
provvisorio. Il lapsus è la fessura attraverso la quale un lampo di
soggettualità e di iper-personale irrompe nella glacialità impersonale del
linguaggio informatico. Se nella zona temporaneamente autonoma del dos de si può arrivare anche ad interpellare le fotocopiatrici, nelle
versioni non ufficiose di Excel (uno
dei cosiddetti fogli elettronici più noti e più sexy) è lecito cambiare sesso,
realizzando un sogno antico: divenire foglia
elettronica. Così evocando tutta un’aria parigina terribilmente autunnale e
romantica. Sono forse queste le macchine valorose preconizzate dai futuristi,
che non smettono di lottare contro la moneta consunta del grigio (color Olivetti)
lessico famigliare. Qui la posta è tanto celere da divenir celebre, i budjet sono
volanti e i treni paladini. Il grande
stile non è solo eloquenza, forma alta. Come direbbe Beccaria, “la rilassatezza
del quotidiano ha, nel piccolo, una sua grandiosa estensione”.
Tra le foglie elettroniche pure s’appresta e
s’appalesa un nuovo nume tutelare, aplografo di Laplace e Lapalisse. Ma forse
tutto ciò è lapassiano.
Teoria degli atti aggiuntivi
ovvero,
l’italiano manipoleggiato
Chi si crede di essere, la leaderscic?
Quest’errore è da amputare a te
Jacopone da Ortis
Finiti i tempi delle vacche grasse, quando i
creditori s’inalberano e il tribunale dispone il decreto ingiuntivo, quando
questi proliferano e si sommano, è con somma precisione che si può parlare di atti aggiuntivi (il che serve a
completare l’album dei pignoramenti).
Soprattutto se al termine di un lungo periodo in cui l’ingiunto ha lasciato che
diversi professoroni si abbeverassero tranquillamente, rappresentando per essi
un vero e proprio zampillo più che un semplice zimbello (siamo diventati gli zampilli dell’università). L’effetto di verità
è confermato, se ce ne fosse bisogno (giusto per i miscredenti che misconoscono
Freud e Lacan) dal professorone già nostro collaboratore - che pure ha dato il
suo personale contributo agli atti aggiuntivi - che si trova a sollecitare i rimorsi spesi.
Gli atti aggiuntivi inaugurano una nuova teoria
centrata sulla brevilingua di fusione, sulla fusiolescenza ontolinguistica, le
cui pratiche sono la tecnopoesia sommariamente descritta nel paragrafo
precedente e nella crociata anticatacretica di cui si da qui qualche saggio. La
sua portata inaugurale è evidente nell’enunciato proverbiale patti chiari amicia lunga, dove -
evidentemente s’è persa la zia per la via (forse si è trattato di una sincope
più che di un attacco di apocope). Oppure nella splendida rilettura dell’antico
do ut des (nell’ottica del dos de,
caso rilevante di glossolalia informatico-religiosa oltre che prodromo di
rilancio del grande progetto di un latino sine flexione).
Non sono forse
i tempi, questi nostri, in cui il deus ex machina viene allo scoperto e si
mostra per quello che è, un deus magna
(così riappropriandosi della maligna divinità vetero-testamentaria) e l’unico dos che si dà è il Disk Operating System
?
Quando gli omini del terziario feudale decidono di
prendere la parola, non usano certo occasional
words, parole destinate a durare lo spazio di una conversazione o -
tantomeno - sintagmi sforbiciati via verso il nulla. Con presa di coscienza
post-marxista, ci si accorge di essere oblerati
di lavoro. Il lavoro, infatti, non aliena l’essere umano: l’oblera. Quasi
l’oblitera, senza farsi obliare.
Il gioco di condensazioni e di spostamenti fondato
sulla compiacenza del materiale linguistico,
le caleidoscopiche neo-metafore, l’abuso dell’abusato, la rifondazione
di metafore abusate fondano luoghi stabili dove il senso riposa. Umoristiche
stazioni di partenza verso il mondo.
Massimo
Celani
Con i contributi di Vincenzo Rovella, Armando Bloise, Marina Simonetti,
Aldo Presta e tantissimi altri
Qui
e là parole rubacchiate a Jacques Lacan, Carlo Emilio Gadda, Edoardo
Sanguineti, Paolo Valesio, Tullio De Mauro, Umberto Eco, Eugenio Montale, W.W.
Golombieski, Paolo Albani, Berlinghiero Buonnaroti, Jean-Michel Rey, Alfredo
Pirri.
Dedicato
agli ex-colleghi del Consorzio per l’Università a Distanza e in particolare al
compagno Franco Carravetta, all’ing.
Beniamino Pugliese (per gli amici Mimmo), all’ing. Carmelo Salvino - tutti
complici di questo lavoro di cifratura
di un’esperienza indimenticabile - che non ci sono più.
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