sabato 20 agosto 2022

Dicerie e pettegolezzi

Vox populi, vox Draghi 

di Massimo Celani e Emiliano Sfara



 Come mai ad un tratto abbiamo rinunciato alla nostra agenda, fatta "storicamente" di eco-sostenibilità, attenzione al clima, alle energie alternative, ottimizzazione e risparmi energetici (compresi quelli sul numero dei parlamentari), razionale, moderatamente etica, europeista e progressista? 
Quella di Draghi non di Falcone o Borsellino. Di un banchiere stimato da mezzo mondo che ha studiato dai gesuiti e poi con Federico Caffè. (Caffé: Do you know?)



Eppure ci è già successo, e di recente, in tutt'altra direzione, per far da spalla alle paranoie di Salvini, con dati truccati e artatamente gonfiati sull'emigrazione, i rifugiati, i Rom, i "clandestini", etc.? Quando abbiamo cominciato a credere alle dicerie, ai pettegolezzi, alle bufale sulle ONG o su Mimmo Lucano e altri centinaia di casi, compreso quello di Bibbiano, che è stato orribile ma che onestamente non può essere riconducibile alla responsabilità di un-partito-uno? Il nostro miglior nemico, a lungo alleato di governo, il PD. Per quale ipersemplificazione diciamo "partito di Bibbiano" o "taxi del mare"  o "i Benetton" (un tempo Luciano Benetton ci piaceva e con quello le immagini colorate e di fratellanza di Oliviero Toscani). Cosa stiamo evocando o suggerendo? Tutto e niente. Dalla qualità dei servizi socio-assistenziali (e parliamo di quelli emiliani, figurarsi quelli di chi vive in Calabria), il controllo sul dispositivo che determina gli affidi, i fantasmi di violenza ("si picchia un bambino" è uno dei casi più noti della letteratura psicanalitica) della scena sessuale, traumatici sia che siano solo suggeriti o accaduti realmente (insomma una questioncella che attraversa tutta l'elaborazione freudiana). Stiamo evocando anche molte altre questioni: formazione e training, accreditamento di istituti, cliniche, lo strapotere di certi avvocati, etc., della fabbrica del "luminare", vale a dire di come si arriva a confidare a occhi chiusi in una persona di scarsissima preparazione o in protocolli terapeutici senza né capo né coda. Figuriamoci se in Emilia si erano messi a fare gli elettrochoc ai picciriddri! Chi mai ha voltuo credere a una cazzata del genere, salvo qualche emulo trash di Salvini?
L'approccio è identico: sia nel caso dei "taxi del mare", che nel "partito di Bibbiano", o in "Radio Soros" (vale a dire Radio Radicale, la bufala - dal sottofondo antisemita - preferita da Casa Pound). Ultimi arrivati "i Benetton", vale a dire una s.p.a quotata in borsa, complessità manageriale e finanziaria oggi 
messa a dura prova da un drappello di semplicioni forcaioli. Con un effetto accessorio non trascurabile: uno di questi sempliciotti è stato a lungo ministro E lo è ancora, anche se in modalità "ordinaria amministazione". 
Per fortuna sembra essersi pentito e ne siamo lieti.

La disinformazione è un virus. 

Molto peggio del Sars-CoV-2. 
Semina sfiducia, paura e bugie. La macchina salviniana, meloniana e di ciò che resta del M5S, eccelle in questo campo. Supportata dalle testate conniventi, quali Libero, il Giornale, La Verità, Panorama, e dei relativi siti, a lungo ha usato falsificare i dati degli sbarchi dei cosiddetti clandestini, alimentando le dicerie sul ruolo delle ONG, considerando "buonismo" tutto ciò che si oppone a tale deriva autoritaria e nazionalista. Aggiunge correttamente Giulio Laroni: "squadrista".
 
La disinformazione si ciba di dicerie e pettegolezzi, in un contesto contro-informativo, paranoico e complottardo. E' il caso particolarissimo di quelli "nè di destra, né di sinistra", che si considerano virtuosi, diversi da tutti gli altri che invece sono necessariamente "subdoli, ingannevoli, sleali e segretamente manipolativi". 
Classicamente, a parte il patologico tratto caratteriale (che oggi diremmo paranoico e putiniano), si tratta di una ipersemplificazione di problemi complessi. La diceria è vox populi: essa esprime cose che la gente desidera, pensa o crede, ma che non è disposta a sostenere esplicitamente 

(…). Insomma, " la diceria ci mette in contatto con una dimensione umbratile della vita sociale, con i bassifondi o le fogne impresentabili del pensiero collettivo".
(Sergio Benvenuto, "Dicerie e pettegolezzi. Perché crediamo in quello che ci raccontano", il Mulino, Bologna 2000). 
Un testo che ha più di 20 anni e non li dimostra affatto. Che andrebbe ristampato, magari con una prefazione di Papa Francesco. 
Con poche integrazioni sulla sua dinamica, oggi prepotentemente telematica.

 “Anche se non è legittimato da un contratto di veridizione, il pettegolezzo 
non è però senza costrutto (...) un carattere eminente della voce è la sua insituabile origine. Suo tratto distintivo è l’assenza di corroborazione. Conosciamo bene i punti di diramazione, spesso luoghi pubblici, caratterizzati da incontri occasionali e fortuiti (file, luoghi d’attese impreviste, raduni collettivi, ecc.) tra attori socialmente disparati, ma non sappiamo la fonte, il primo destinante di cui tutti sono i virtuali destinatari. Non c’è mai un primo soggetto sparlante." 

("Voci e Rumori: la propagazione della parola", a cura di P. Fabbri e I. Pezzini, Versus, quaderni di studi semiotici, n. 79, gennaio-aprile 1998).

Giusta l'associazione d'idee, e la citazione, da Primo Levi: "… io mi accontenterei di fare del pettegolezzo una sorta di tassonomia, cioè di classificazione, come si è sempre fatto con le piante e gli animali".
Salta agli occhi il problema tipicamente italiano di una compagine qualunquista, influente e sovrarappresentata soprattutto nel passaggio dal Conte 1 al Conte 2, vale a dire da un governo di estrema destra, il cosiddetto giallo-verde, a uno moderatamente di sinistra e inficiata dai corposi quantitativi di Maalox resi necessari dai tic, vizi e bandierine dei 5 leghe. 
Con un errore diagnostico originario sulla discontinuità necessaria nel passaggio da un governo all'altro. Supponendo che Conte fosse il garante della continuità, mentre quel punto di scaturigine era da situare altrove, nell'impostura e nella determinazione dei colonnelli nascenti di Di Maio. Capopolitico e deus ex machina, pluriministro e poi ministro degli esteri nella fase più delicata e complessa dello scacchiere geopolitico. 

Che Maurizio Crozza, quando imita lo psicanalista Recalcati, direbbe sagagacemente "ipersalvinico" e che il governatore della Regione Campania 
Vincenzo De Luca, avrebbe definito "fratacchione" (da prendere, of course, col lanciafiamme). Pochezza e miopia delIa logica centrata sull'uomo solo al comando. 
I 5 stelle della fondazione non erano così. Erano pieni di malpancisti di sinistra, di (brava) gente incline al volontariato, al ben fare, sociale e ambientale. 
Quel brodo di coltura "né di destra , né di sinistra" ha determinato il contagio e son diventati cinici e opportunisti. Più tribali e ignoranti dei fascio-leghisti. E con la scusa del post-ideologico e del post-politico, praticamente degli impostori.
 
L'impostore si trova oggi nelle nostre società perfettamente a suo agio: fa prevalere la forma sulla sostanza, mette in risalto i mezzi piuttosto che i fini, si fida delle apparenze e della reputazione piuttosto che del lavoro e della probità, preferisce l'audience al merito, opta per un vantaggioso pragmatismo piuttosto che per il coraggio della verità, sceglie l'opportunismo dell'opinione invece di 
tener fermo sui valori, pratica l'arte dell'illusione invece di emanciparsi attraverso il pensiero critico (...). 

Ecco l'ambiente in cui prospera l'impostura! (...) L'impostore vive a credito, a credito dell'Altro. Sorella siamese del conformismo, l'impostura è fra noi. 
(Roland Gori, "La Fabrique des Imposteurs", UnivNantes, 10 set 2014).


sabato 13 agosto 2022

Così parlò Kamasutra

 

Ou. Riflessioni e provocazioni, volume VI, n.1 ("Groucho Marx. Il Witz come re-inscrizione del limite"), Abramo, 1997


 §


Così parlò Kamasutra

ovvero, Marx nel terziario avanzato





 

 

O quest’uomo è morto, oppure il mio orologio è fermo

Groucho

 

Dopo di ciò, assoluto totale

Anonimo

 

 

“Non ho nessuna difficoltà a nascondere la verità” - disse l’Amministratore Delegato in un memorabile confronto televisivo coi dipendenti già da qualche anno senza stipendio.

Lo Stesso, pochi mesi prima, aveva minimizzato con nonchalance - “ma quale crisi economica, è solo una momentanea mancanza di liquidità!”. Con lo stesso candido tono di preterizione di Pietro Vanni  (suvvia...erano solo merende !), più o meno nello stesso periodo in cui Michele Greco detto il Papa  si chiedeva “in cosa ho mafiato io ?”.

“Non ho nessuna difficoltà a nascondere la verità” sembrò all’epoca un lapsus, un tradirsi lampante, l’irruzione della verità sulla scena. Atto mancato, discorso riuscito. Colui che lascia in tal modo sfuggire la verità - avrebbe commentato Freud - è in realtà felice di gettare la maschera.

Oggi, col senno di poi, aprés-coup, nachträglich (fingendo - al fine di far bella figura - di attingere al sacro tedesco e dunque mal tradotto testo freudiano, oltre che a quello lacaniano), appare piuttosto un enunciato umoristico, un motto di spirito.

La dinamica lapsus > Witz abita il testo freudiano sin dai tempi familionari. “Come è vero Dio, signor dottore, stavo accanto a Salomon Rothschild e lui mi ha trattato proprio come un suo pari, con modi del tutto familionari.”

Il dubbio mi alberga già dalla giovanile lettura del saggio freudiano sul motto di spirito:

si trattò di creatività di Heine o piuttosto di antenne ben drizzate sull’impadronanza di linguaggio di un anonimo callista e ricevitore del lotto ? Il dubbio era ovviamente piuttosto ingenuo. La testualità non è questione di autore ma di circolazione e di traffico: “essa è ciò che può essere fatto senza che colui che lo fa possa rivendicare su di esso il minimo diritto“ (sto abusando di Blanchot che chiosa le tesi di Eluard sulla poesia involontaria).

 



Che il fattapposta, il come-si-chiama, il parlessere, il manquessere (poiché - santo Lacan - immancabilmente nel linguaggio s’incespica e si manca), resti dopotutto un animale (sul quale il linguaggio è disceso per segnarlo indelebilmente), non determina che quanto segue sia un bestiario. Ché vorrebbe dire stare sulla scia editoriale di chi se l’è cavata fin troppo bene lucrando col moralismo socio (o etno ?) linguistico. E in ogni caso i bestiari non sono che cosa di tutti, anonimi e collettivi best di una poesia sottratta ad ogni appartenenza individuale.

Gli stupidari non sono altro che diari in cui giorno per giorno si annotano sedimenti, precipitati, “dispersioni” e “disseminati” (chimica derridiana), thesaurus di enunciati surdeterminati da parole-tema le quali evidentemente offrono una certa stoffa e nelle quali alcune sillabe possono fare lo sgambetto alle altre (la grazia delle metafore di “stoffa” e di “sgambetto” ovviamente sono di Saussure, Les mots sous les mots).

 

Quanto qui è sedimentato ed offerto è dunque umorismo polifonico di una comunità uditoriale prim’ancora che editoriale, pratica collettiva di slittamento col significante, di chi - abitando il linguaggio e costruendo il mondo con esso - usa servirsi del gioco del significante non per significare qualcosa ma per ingannarci su ciò che ha da significare. Un gioco che pure scivola al senso.


 

Dimentichi di papà Hjelmslev (“la comunità linguistica è libera di introdurre nuovi segni e di abolire segni antichi”), di zio Freud (per il quale ogni atto mancato è un atto perfettamente riuscito) e del nipotone Lacan (“non c’è padronanza”), gli ironici bacchettoni potranno ridacchiare dei sostantivi appiccicati, dei verbi intransitabili più che intransitivi, delle congiunzioni sudaticce e delle forme flesse distese sui binari con intenti suicidi. Ma non è per questo e soprattutto non è per loro - evidentemente duri di comprensorio - questa che Eco definirebbe scorribanda glottogonica. Sintagma misteriosofico che s’impone per potenza evocativa (quel mondo, quel Welt costruito col linguaggio a cui si accennava poc’anzi; quanto al letterale, vada per la scorribanda ma per quel glottogonico ... è lecita l’esclamazione: non ne ho la più squallida idea!).

 

“Raro è quel libro, che non sia un centone / di cose a questo e quel tolte e rapite ...” rappava Salvator Rosa. Qui è da intendere alla lettera e senza marca di negatività. Ma poiché il tono della faccenda resta un poco nel naso, volentieri ridondo: saranno questi e quelli petits rhétoriqueurs helzapoppinoidi, una vispa famigliola di rhétoriciens applicati, alle prese con un grammelot esperantistico, o una mera masnada di rusticoni sul lastrico, con tanto di carotame, cavolame e altro linguistico fastfoodale - così editando, con la scusa di Groucho - da sgombrare ?

So solo che, in quasi dieci anni di esperienza nel terziario feudale, il quartiere abitualmente torsolesco mi apparve dolce di luci.

 

 

 

 

 

Se son fiori fioriranno

ovvero, leggere tra le rime


 

Questa è la scintilla che ha fatto traboccare il vaso

Smettila di fare l’attaccabriglie !

Via San Quasimodo

 

Quanto segue mette in gioco una dinamica poetica. La giusta distanza tra lingua comune e lingua alta, tra il molto al di sopra della medietà e il molto al di sotto. Direbbe Barberi Squarotti che non si può fare poesia se non ironizzandone continuamente la medietà, facendo cioè riferimento costante alla sublimità impossibile, all’eccezionalità ormai vietata.

Ecco la splendida terrestrità - solo apparentemente tautologica - di se son fiori fioriranno  o del sole in bocca (le ore del mattino hanno il). Nella nostra epoca non è più possibile far poesia rispettivamente con la rosa o con l’oro.

Non sfugga - nel primo caso - la citazione del Salmo CIII (Hominis dies sunt similes faeno, sicut flos agri ita florent) e in entrambi i casi la profonda ironia antibucolica, pure presente nella definizione del sempre in agguato molestatore campestre: l’abbracciante agricolo.

Si dispiegano dunque le truppe contro la catacresi, contro la metafora consunta. Tant’è che qualcuno, riferendosi a un processo di consuzione, si spinge a registrare la consunzione della stessa consunzione. Si potrà infatti consuggere con piena soddisfazione dalla scintilla che ha fatto traboccare il vaso. Prova concreta che i vasi infranti della Kabbalà erano e restano pieni di esplosivi. Che vale più quella insipida goccia, surgelata quanto il consunto Bastian (chi era costui?). Il baston contrario suggerisce dunque pure l’evenienza di mettersi sempre tra le ruote.

Sempre sullo stesso versante, segnalo un antonimo che nessun “sinonimi e contrari” potrà mai riportare. Se l’attaccabrighe vuole la rissa, l’attaccabriglie opera - al contrario - per sedare gli animi impetuosi. Ma persino il cheto attaccabriglie non può fare a meno di ribellarsi a quell’insipido aggettivo autoadesivo, a quel pallore da sempre riferito all’idea.

Nei nostri tempi metropolitani, le idee o sono grandi o sono squallide (non ne ho la più squallida idea).