Massimo Celani
Giovanni col senno di poi
Arriviamo così alla questione della Nachträglichkeit, termine
reso con “après-coup” in francese, ma utilizzato egualmente in italiano, sia da
solo che assieme a posteriorità, o a posteriori, non trascurando alcuni nemmeno
azione differita, sebbene si sia fatta sempre più strada la convinzione
dell’inadeguatezza della traduzione della Nachträglichkeit con deferred action
per indicare la retroattività, motivo per cui spesso gli autori italiani (ma
questa prerogativa appare esser presente anche in quelli inglesi), preferiscono
aggiungere ad essa il termine tedesco o francese. Ma evidentemente non si
tratta solo di un problema traduttivo.
Non si tratta tanto di fare il punto “completo” su di un
concetto, ma di mostrare da una parte la ricchezza teorica e il ruolo clinico
dell’après-coup, dall’altra la diversità di interpretazioni che la comunità
analitica sviluppa sulla questione[1].
La proposta “integrativa” fra le due accezioni nasce in
verità da una serie di malintesi: il primo è che la psicoanalisi inglese abbia
utilizzato il concetto senza nominarlo, ipotizzando dunque un accordo di fondo
fra le due “lingue”, mentre a mio avviso si tratta di una differente
metapsicologia, di una differente concezione della temporalità psichica e dei
processi della cura; il secondo è che se, come l’autrice propone, occorre
“dialettizzare” il tempo dell’après-coup con quello lineare evolutivo (che
esprime già, come tesi, la necessità di delimitare la posta in gioco
dell’après-coup che non è certo data dalla risignificazione del passato - elemento
che non disturba nessuno -, quanto invece dall’intreccio dei tempi che si
realizza nel momento in cui il tempo 2, il tempo della scena rimossa, risuona
nell’evento anodino che si realizza nel presente) si delinea, con questa
“dialettica”, una differenza fra un passato da rileggere ed un presente da vivere, articolato al passato
evidentemente solo nella dimensione patologica. Infine, si propone la tesi per
cui l’après-coup non è che “una ristrutturazione del passato in funzione del
presente, e l’interpretazione un après-coup che riorganizza le percezioni e le
conoscenze precedenti”. Ma così facendo si riduce ancora una volta l’après-coup
a pura rilettura, si perde di vista la questione del tempo imbricato o
dell’anacronismo inerente alla dimensione delle tracce che persistono silenti
nel riverbero fra una storia attuale ed una tuttora in giacenza, e si accetta
il concetto a patto di ridurlo ad una sequenzialità di tempi che procedono
verso forme progressive o di maturazione soggettiva. Anche nella tradizione
italiana, il riferimento all’après-coup, mediato ed accompagnato da una
pluralità di traduzioni, diventa nell’uso corrente un patchwork di lingue, come
del resto mostra il titolo stesso di questa introduzione. Ma i motivi sono da
ricercarsi solo nel tentativo di indicare, con queste differenti occorrenze
terminologiche, una pluralità indifferente di traduzioni o c’è altro?
Sicuramente il riferimento a tali possibilità linguistiche rende conto del
dibattito sorto intorno alla traduzione della Nachträglichkeit, come se
l’utilizzo del termine dovesse importare l’intera storia del dibattito e con
sé, tuttavia, la complessità delle concezioni psicoanalitiche della
temporalità, non tutte congruenti fra di loro.
(…)
Il 6 dicembre 1896 Freud scrive a Fliess:
“… Sto lavorando all’ipotesi che il nostro meccanismo
psichico si sia formato mediante un processo di stratificazione: il materiale presente
sotto forma di tracce mnestiche è di tanto in tanto sottoposto a una sistemazione
in accordo con gli avvenimenti recenti, così come si riscrive un lavoro”.
“ … a una sorta di riscrittura. La novità essenziale della
mia teoria sta dunque nella tesi che la memoria non sia univoca, ma molteplice
e venga fissata in diversi tipi di segni […] vorrei sottolineare il fatto che le
successive trascrizioni rappresentano la realizzazione psichica di successive
epoche della vita. La traduzione del materiale psichico deve avvenire al
confine tra due di tali epoche”[2]
“A un anno e mezzo il
bambino riceve un’impressione a cui non può reagire adeguatamente; solo a
quattro anni, rianimando questa impressione, la intende e ne è colpito; e solo
due decenni dopo, nel corso dell’analisi, riesce a comprendere appieno, grazie
a un processo mentale cosciente, quel che allora era avvenuto in lui”, Freud S.
(1914).[3]
Questa oscillazione fra le lingue, paradossalmente mostra
che è nel passaggio fra le lingue e non nella loro destinazione (linguistica)
che il concetto prende vita. Se la traduzione francese accentua il carattere
del coup, del colpo, quella tedesca del nach, del successivo, del supplemento,
la traduzione italiana sembra oscillare fra due destini traduttivi e due
epistemologie differenti: da una parte tralascia il primo tempo del trauma,
spingendo però verso l’indecidibilità dell’evento e del lavoro trascrittivo,
intendendo la posteriorità come ripresa e riformulazione non prescrivibile
della tracce mnestiche, dall’altra spinge verso una concettualizzazione
dell’après-coup come rilettura dell’evento, in una direzione prossima sia alla
assunzione simbolica lacaniana, sia alla versione più specificamente
ermeneutica. Inteso in questo senso, l’après-coup appare indicare un curioso
paradosso, la diversità delle traduzioni mostrando bene come non sempre ci sia
resi conto, in una determinata scelta, delle valenze concettuali in esso inscritte.
Allo stesso tempo, in questo non poter fare a meno delle diverse traduzioni,
esso mostra un funzionamento relativo al senso medesimo della comunità
psicoanalitica: essa non può pensarsi che nel passaggio fra una lingua
all’altra, negli interscambi fra una cultura psicoanalitica ed un’altra, senza
che nessuna, al fondo, possa davvero divenire il codice di lettura di tutte le
altre. Anzi, non è nemmeno esatto parlare di un transfert da una lingua
all’altra, perché, piuttosto, il transfert culturale interlinguistico “è un
passaggio nel quale interferiscono spesso culture terze. (…)
Nel suo testo sull’ après-coup Jean Laplanche mostra i tre
sensi possibili del nachträglich: 1) come aggiunto, successivo, secondario; 2)
quello dell’effetto secondario differito, (il ricordo agisce après-coup più
intensamente dell’evento di cui è il ricordo); 3) quello della comprensione
après-coup. “Dei ricordi sono compresi après-coup. E’ l’aspetto freudiano più
vicino a quello che si può chiamare retroazione, un senso che sembra invertire
la freccia del tempo, poiché il senso dell’evento 1 appare o è dato soltanto in
un tempo 2”[4]
Noi, effettivamente, ne sappiamo solo “a posteriori, a
partire dai suoi effetti, i quali, perciò, (non) sono tutto ciò che è” [5]. “Nachtraglichkeit
è il nome con cui [Freud] battezza la sua ossessione”. “La più grande
invenzione freudiana” in cui “il ‘prima’ è causato dal ‘poi’” e “il ‘dopo’ è
causa del ‘prima’”. La Nachtraglichkeit mira persino oltre, ovvero a deflagrare
la credenza del senso comune secondo cui ci sarebbe semplicemente un “prima”
che si spieghi per mezzo di un “dopo”. Il tempo, con la Nachtraglichkeit, è
fuori dai suoi cardini ma, nel medesimo movimento sovversivo, non è solo il
tempo a uscire dai cardini, ma l’inconscio stesso a uscire dal tempo (Zeitlosigkeit).
A gettare luce sul termine è stata certamente la pubblicazione, postuma,
dell’epistolario tra Freud e Fliess, un vero e proprio laboratorio della
Weltanschauung freudiana, nonché culla dell’apparizione dell’annoso sostantivo:
lettera del 14 novembre 1897. [6]
In una prospettiva diversa, la nozione di posteriorità
potrebbe richiamare anche una concezione della temporalità posta in primo piano
dalla filosofia e ripresa dalle diverse tendenze della psicanalisi
esistenziale: la coscienza costituisce il suo passato, ne rielabora
costantemente il senso in funzione del proprio “progetto”.[7]
Ma la concezione freudiana è molto più precisa. Non è il
vissuto in generale che è rielaborato posteriormente, ma soprattutto ciò che,
al momento in cui è stato vissuto, non ha potuto integrarsi pienamente in un
contesto. (…) La rielaborazione posteriore viene precipitata dal sopraggiungere
di eventi e situazioni o da una maturazione organica che permettono al soggetto
di accedere a un nuovo tipo di significati e di rielaborare le sue esperienze
precedenti.[8]
Perché Giovanni è chiamato il “precursore”?
Perché con la azione profetica e la predicazione annuncia la
venuta di Gesù. Dopo la giovinezza, Giovanni si ritirò a condurre la dura vita
dell’asceta nel deserto.
Nell’ anno quindicesimo dell’impero di Tiberio (28-29
d.C.), iniziò la sua missione lungo il fiume Giordano, con l’annuncio dell’avvento
del regno messianico ormai vicino, esortava alla conversione e predicava la
penitenza.
Da tutta la Giudea, da Gerusalemme e da tutta la regione
intorno al Giordano, accorreva ad ascoltarlo tanta gente considerandolo un
profeta; e Giovanni in segno di purificazione dai peccati e di nascita a nuova
vita, immergeva nelle acque del Giordano, coloro che accoglievano la sua
parola, cioè dava loro un Battesimo, da ciò il nome di Battista.
Venne un uomo mandato da Dio e il suo nome era Giovanni.
Egli venne come testimone per rendere testimonianza alla
luce, perché tutti credessero per mezzo di lui.
Egli non era la luce, ma doveva render testimonianza alla
luce.[9]
Giovanni rende testimonianza a lui e proclama: “Questi era
colui di cui dissi: “Colui che viene dopo di me ebbe la precedenza davanti a
me, perché era prima di me”.[10]
Chi sei tu allora? Cosa dici di te stesso? “Io sono la voce
di uno che grida nel deserto: preparate la via del Signore, come disse il
profeta Isaia”.[11] Non sono
io il Cristo, ma sono colui che è stato mandato davanti a lui[12].
Vediamo il controcampo della scena in Matteo[13]
13 In quel tempo Gesù dalla Galilea andò al
Giordano da Giovanni per farsi battezzare da lui. 14 Giovanni però voleva
impedirglielo, dicendo: «Io ho bisogno di essere battezzato da te e tu vieni da
me?». 15 Ma Gesù gli disse: «Lascia fare per ora, poiché conviene che così
adempiamo ogni giustizia». Allora Giovanni acconsentì. 16 Appena battezzato,
Gesù uscì dall'acqua: ed ecco, si aprirono i cieli ed egli vide lo Spirito di
Dio scendere come una colomba e venire su di lui. 17 Ed ecco una voce dal
cielo che disse: «Questi è il Figlio mio prediletto, nel quale mi sono
compiaciuto».
Tornando al sintagma alternato con Giovanni (I: 25-31):
«Perché dunque battezzi se tu non sei il Cristo, né Elia, né
il profeta?». 26 Giovanni rispose loro: «Io battezzo con acqua, ma
in mezzo a voi sta uno che voi non conoscete, 27 uno che viene dopo di me,
al quale io non son degno di sciogliere il legaccio del sandalo». 28
Questo avvenne in Betània, al di là del Giordano, dove Giovanni stava
battezzando.
29 Il giorno dopo, Giovanni vedendo Gesù venire verso
di lui disse: «Ecco l'agnello di Dio, ecco colui che toglie il peccato del
mondo! 30 Ecco colui del quale io dissi: Dopo di me viene un uomo che mi
è passato avanti, perché era prima di me. 31 Io non lo conoscevo, (…)[14]
Da quel momento Giovanni confidava ai suoi discepoli “Ora la
mia gioia è perfetta. Egli deve crescere e io invece diminuire” (Gv 3, 29-30).
“Io ho bisogno di essere battezzato da te e tu vieni da me?”
e Gesù: “Lascia fare per ora, …”[15].
“Lascia fare per ora” non è solo deferred action per indicare la retroattività. Apre al futuro
anteriore. Non ci sono né recriminazioni da parte di Giovanni, né ulteriori
spiegazioni da parte di Gesù, c’è un atto di fiducia rinnovato, e forse questo
è il battesimo in cui si immerge Giovanni, si immerge in un atto di abbandono e
di fiducia radicali in Gesù e nella sua volontà, nella sua parola[16].
Giovanni sta alla cerniera tra Antico e Nuovo Testamento, è
l’ultimo dei profeti dell’antica alleanza e il primo a proclamare il Vangelo
(cf. Lc 3,18): è lui il sigillo della continuità della fede, è lui il testimone
della Legge e dei Profeti, e nel contempo l’annunciatore e il testimone di Gesù
Cristo. Tutto il Nuovo Testamento è concorde sulla sua identità e sulla sua
missione di precursore, ma il vangelo “altro” ce lo presenta con tonalità
particolari, peculiari. Giovanni entra in scena nel prologo del quarto vangelo.
Dopo aver rivelato colui che era fin dal principio rivolto a Dio e messo in evidenza
la contrapposizione tra la luce e le tenebre (cf. Gv 1,1-5), in modo brusco e
inatteso il testo annota: “Venne un uomo mandato da Dio. Il suo nome,
Giovanni”. Un uomo: Giovanni è un uomo, senza alcuna qualifica di appartenenza
sociale o religiosa. Si tace il suo essere venuto al mondo da una famiglia
sacerdotale, si tace la sua provenienza. Egli è un uomo presentato in modo
spoglio, del quale importa solo dire che è “inviato da Dio” e, subito dopo,
“testimone “. Ecco la sua vera qualifica: un inviato, un profeta e un
testimone, dunque servo solo di Dio. A lui spetta di testimoniare riguardo alla
luce venuta nel mondo, questa è la sua missione: chiamare tutti a credere alla
luce e a uscire dal dominio delle tenebre.
Nel quarto vangelo, inoltre, Giovanni si definisce ed è
definito soprattutto in modo negativo, ossia in riferimento a ciò che non è: è
inviato da Dio, ma non è la luce, bensì soltanto il testimone della luce.
Perché questa insistenza? Perché ancora nell’epoca in cui questo vangelo è
messo per iscritto vi sono alcuni che si rifanno al Battista, contrapponendolo
a Gesù. D’altronde egli fu una figura profetica carismatica, con molto seguito
e risonanza. Non si dimentichi che di lui abbiamo notizie da numerose fonti
giudaiche, cosa che non si può dire di Gesù. Qui dunque l’evangelista
sottolinea la differenza radicale tra il profeta, un uomo, e il Figlio di Dio
venuto nel mondo.[17]
C’è un verso di una poetessa tedesca, Hilde Domin, poco
conosciuta in Italia, ma bravissima e parzialmente tradotta da Gio Batta
Bucciol (grazie all'opera meritoria di Gianni Scalia che in quegli anni andava
disegnando quel gioiello di collana editoriale chiamata "in forma di
parole"). Dice così: Vertrauen, dieses schwerste ABC. Ovvero, “ABC.
Fiducia questo difficile alfabeto”.[18]
Ecco la domanda, per come se la pone Hans-Georg Gadamer:
"si deve proprio apprendere la fiducia? Si può
apprenderla come s'impara a scrivere? Come se uno potesse vivere senza fiducia;
nell'altro che uno capisce, nelle parole che tutti conoscono, nel mondo che c'è
in loro? Eppure qui la fiducia è definita come qualcosa che si deve apprendere
e dall'inizio. Come può essere andato perduto quest'elemento semplicissimo che
sta alla base di tutto ciò che dura nella vita, di ogni discorso durevole:
l'ABC. Lo si può semplicemente reimparare? Come qualcosa di cui non siamo
esperti o che abbiamo disimparato?” Così scriveva Gadamer nel 1982.[19]
Andrea Solario, studio per la testa di Giovanni Battista
Maurizio
Balsamo, “Come si traduce “Nachträglichkeit” in italiano?”, in Forme dell'après coup, Franco
Angeli, 2009
Freud S. (1887-1904). Lettere a Wilhelm Fliess. Torino, Boringhieri,
1968, p.236