domenica 6 maggio 2018

Il giovane Renzi

Con una introduzione o una postfazione (come preferisce lui) di Massimo Recalcati




Che pena lo psicanalista alla Leopolda
Veet Depilsoap feat. Dolores Ceretta

D.C. Chissà perché?
V.D. Mah!
D.C. Proprio lui, così bravo, così fascinoso.
V.D. Telemaco testimone del renzismo.
D.C. Forse covava da tempo il desiderio di un nuovo padrone.
V.D. E lo avrà.



L’uso del linguaggio analitico per definire, e mal apostrofare, non un singolo, ma un’intera categoria di persone unite esclusivamente dal loro orientamento referendario, è una brutta deriva.

La psicoanalisi ai tempi della Leopolda

di Maurizio Montanari

Non so se, quando lo psicoanalista J.A. Miller sosteneva la necessità di ‘parlare la lingua dell’altro’, cercando di rendere l’analista una figura attuale, elastica, capace di lasciare sempre più le mura dello studio, si riferisse anche alle kermesse di corrente di partito, come quella tenutasi alla Leopolda. La passerella fiorentina rappresentava invero più un salotto esclusivo, il défilé di una piccola élite, che non le voci della città.
La psicoanalisi, piuttosto che accasarsi presso un’avanguardia benpensante e piena, satolla di mezzi e verità, dovrebbe andare laddove la carne della città è viva, in bilico, precaria, disoccupata. Dove c’è il vuoto, dove qualcosa manca, cercando di dare voce a tutti coloro i quali la voce l’hanno persa, al prezzo di volgarizzarsi. Non è populismo dire che là dentro non erano rappresentate che alcune delle voci della società. Non certo quelle dei docenti toccati dalle recenti riforme, né quelle dei giovani vittime del jobs act, manco quelle degli operai della Fiat colpiti dal ‘modello Marchionne’, uomo col quale il leader della Leopolda si dice in piena sintonia. Se la psicoanalisi la si vuole usare in città, dans la rue, si deve cercare di arrivare anche nelle periferie. Pena, il cadere in un gioco di specchi dove il padrone si bea delle sue parole e dei suoi tecnicismi, che si stagliano, ma sfumano in mezzo alla pletora di applausi e voci univoche del coro.
Come uomini possiamo andare ovunque. Entrare in qualsiasi consesso liberamente. Come analisti sappiamo che esistono stanze che ci impongo di lasciare il soprabito fuori dalla porta. La questione dell’‘opacità’ dell’analista, vale a dire la capacità tenace di non lasciare trasparire che poco o nulla dei propri vissuti interiori, è un articolo cardine della costituzione analitica, che permette all’analista di restare tale, occupando quella posizione, indipendentemente dal mutare dei tempi e dei costumi. L’analista, e questo lo sanno davvero tutti coloro che sono addetti ai lavori, affinché il dispositivo funzioni e non si tramuti in qualcosa d’altro, deve saper mantenere questa posizione il più possibile decolorata, quel posto che Lacan definisce dello ‘scarto’. In seduta, certo. Ma non solo. Viceversa, il mostrare pubblicamente le proprie pulsioni, idee, vestendole del lessico clinico, può sfociare in qualcosa che assomiglia ad un ‘giudizio diagnostico extra moenia. E in un mondo mediatico dove se ti metti in posa sai che il tuo messaggio verrà replicato all’infinito, è qualcosa che può turbare, scuotere, colpire, pasticciare il lavoro in corso di tanti che si sono sentiti chiamati in causa. Penso al lavoro analitico delle mummie masochiste che voteranno no. Mi chiedo quale sarebbe la reazione dei miei analizzanti, del pd, o quelli di sinistra, o di destra, se mi vedessero non già schierato, quanto ‘arruolato’ imbracciando la doppietta del dsm in uno dei palchi politici ai quali ho partecipato. Apostrofando parte di essi come un ‘corpo unico’, definendoli in base a questa o quella affezione dalla quale sarebbero interessati. (…)
L’uso del linguaggio analitico per definire, e mal apostrofare, non un singolo, ma un’intera categoria di persone unite esclusivamente dal loro orientamento referendario, è una brutta deriva. Usare la diagnosi per stigmatizzare, categorizzare, delocalizzare tutto quello che sfugge alla propria capacità di ordinare simbolicamente, risponde alla necessità arcaica del dipingere il dissenziente come barbaro, malato, una sorta di golem mummificato ed angosciante che cammina per strada terrorizzando la tranquilla popolazione e premendo alle porte, come nella serie Wayward Pines. Taglio di bistecca con mannaia; tre pezzi di carne: i vecchi mummificati, gli adolescenti perenni abbagliati da grillo, e, finalmente, gli ‘eletti’ dotati di verbo, idee e sognatori. E pazienza se sul sito dell’ordine degli psicologi trovo scritto che: lo psicologo è consapevole della responsabilità sociale derivante dal fatto che, nell’esercizio professionale, può intervenire significativamente nella vita degli altri; pertanto deve prestare particolare attenzione ai fattori personali, sociali, organizzativi, finanziari e politici, al fine di evitare l’uso non appropriato della sua influenza.
Diceva quel tale ‘Le eresie devono pur esistere’, ed è proprio questo il vero spirito laico dello psicoanalista. Aprire la porta ed accogliere tutto ciò che è dissonante, incomprensibile. Quell’elemento di sorpresa che distingue la clinica analitica da un processo di normalizzazione. All’analista non frega nulla dell’ordine pubblico.



Ridiamo pure delle mummie ma, dietro al grottesco, si nasconde il giudizio. Chi fa lo psicoanalista, lo sa. Essere masochista, paranoico, fobico, schizofrenico, dissociato, non è una colpa. Sono strutture che il soggetto si trova ad abitare, lui nonostante. La psicoanalisi non giudica, accoglie. Ho ricevuto un insegnamento in questo campo, giacché tra tanti maestri fallaci, qualche clinico rigoroso l’ho incontrato, seppur tardi. L’insegnamento consiste in questo: quando parli di clinica, e fai il mestiere dell’analista, usi il linguaggio al pieno delle sue potenzialità, gravido delle sue implicazioni e devi essere pronto a sopportare le conseguenze di ciò che dici. Il masochista non è secondo Lacan semplicemente colui il quale gode soffrendo, bensì un deietto. Dunque un soggetto deresponsabilizzato. L’accozzaglia del no sapeva di essere gruppo di burattini in cerca di padrone, come Peter Sellers di ‘Oltre il giardino’? In realtà i mille no che io conosco, il mio compreso, affondano radici in motivazioni ben coscienti e consapevoli. Molti di loro semplicemente hanno pensato di dire no perché questa riforma è fatta male. O perché non amano Renzi e la sua compagine. O perché hanno i loro motivi.
Se usassimo il giudizio clinico fuori dallo studio, stravolgendo come detto l’essenza stessa della psicoanalisi, la Leopolda potrebbe apparire un luogo di obbedienza, dove si vota sì perché è ciò che ha detto il capo. Potrei abusare delle nozioni diagnostiche riempiendomi la bocca di parole come “forza della legge perversa”, alienazione e fedeltà. Potrei addirittura scomodare la perversione. Il perverso in fondo non è che un uomo di fede, un essere che cerca, edifica e venera un Dio al quale votarsi. Ma non farei lo psicanalista. Ciò nonostante nessuno riuscirà mai a togliermi dalla testa la convinzione che nel caso della nomina di Telemaco abbia agito una vera lex perversa. Tramutato in Caino, fa fuori il fratello di partito e ne prende il posto. Senza passare dalle urne, senza mai quell’incontro con il principio di realtà chiamato voto. Come mummia continuo a sedermi su vecchie e solide certezze: per cambiare la Carta Costituzionale, devi sapere cosa fai. Ma, soprattutto, devi esser certo di rappresentare davvero l’intenzione popolare, la maggioranza del paese, e questo, lo si voglia o meno, lo si ottiene attraverso il voto. Diversamente ti atteggi a minoranza autoeletta ed illuminata, che ti porta a redigere un quesito referendario nel quale mostri i pregi di questa tua modifica, ma tieni i difetti nella stilografica.
Liquidare l’avversario perché indossa indumenti diagnostici, significa adottare una micidiale prospettiva secondo la quale la protesta, il dissenso, diventano ipso facto paranoiche, perché attentano alla verità del capo. (…) Come nel film ‘Gattaca. La porta dell’universo’, come nelle parole di Philip Dick: “Coloro che ti sono avversi, sono pazzi”. (…)
Per proteggere gli eletti dall’avanzare scomposto del nemico, che avrà le sembianze vieppiù del persecutore, del perturbante, del kakon. ‘La mummia’, ‘il vecchio’, ‘il conservatore’, ‘ il cattivo partigiano’, passerella linguista degli orrori a significare che nell’altro qualcosa non funziona, e dentro alla piramide c’è la salute e la tranquillità.
Nessuno in realtà li odia. Né tantomeno truppe cammellate vogliono rubare loro i sogni. Sono loro ad avere un sogno che cercano di imporre come buona pratica di vita urbi et orbi. Hanno un sogno, ma non rappresentano null’altro che sé stessi. Staccati dall’elettorato, incuranti della loro effettiva rappresentatività, paventano predoni onirici, quando non si tratta che della gente, degli uomini del quotidiano. Quella stessa gente che del referendum sa poco o nulla, malamente informata, e per nulla istruita. Il 33% degli Italiani ha appena sentito parlare delle questioni referendarie. Il 14% dichiara di non saperne nulla. E qua, la nuova compagine telemacoide dimostra di aver del tutto abdicato all’erotica dell’insegnamento, quella cioè di informare le masse, dando la giusta dose di conoscenza. (…)

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