Che pena lo
psicanalista alla Leopolda
Veet Depilsoap feat.
Dolores Ceretta
D.C. Chissà perché?
V.D. Mah!
D.C. Proprio lui, così bravo, così fascinoso.
V.D. Telemaco testimone del renzismo.
D.C. Forse covava da tempo il desiderio di un nuovo padrone.
V.D. E lo avrà.
L’uso del linguaggio analitico per definire, e mal
apostrofare, non un singolo, ma un’intera categoria di persone unite
esclusivamente dal loro orientamento referendario, è una brutta deriva.
La
psicoanalisi ai tempi della Leopolda
di Maurizio Montanari
Non so se, quando lo psicoanalista J.A. Miller sosteneva la
necessità di ‘parlare la lingua dell’altro’, cercando di rendere l’analista una
figura attuale, elastica, capace di lasciare sempre più le mura dello studio,
si riferisse anche alle kermesse di corrente di partito, come quella tenutasi
alla Leopolda. La passerella fiorentina rappresentava invero più un salotto
esclusivo, il défilé di una piccola élite, che non le voci della città.
La psicoanalisi, piuttosto che accasarsi presso
un’avanguardia benpensante e piena, satolla di mezzi e verità, dovrebbe andare
laddove la carne della città è viva, in bilico, precaria, disoccupata. Dove c’è
il vuoto, dove qualcosa manca, cercando di dare voce a tutti coloro i quali la
voce l’hanno persa, al prezzo di volgarizzarsi. Non è populismo dire che là
dentro non erano rappresentate che alcune delle voci della società. Non certo
quelle dei docenti toccati dalle recenti riforme, né quelle dei giovani vittime
del jobs act, manco quelle degli operai della Fiat colpiti dal ‘modello
Marchionne’, uomo col quale il leader della Leopolda si dice in piena sintonia.
Se la psicoanalisi la si vuole usare in città, dans la rue, si deve cercare di
arrivare anche nelle periferie. Pena, il cadere in un gioco di specchi dove il
padrone si bea delle sue parole e dei suoi tecnicismi, che si stagliano, ma
sfumano in mezzo alla pletora di applausi e voci univoche del coro.
Come uomini possiamo andare ovunque. Entrare in qualsiasi
consesso liberamente. Come analisti sappiamo che esistono stanze che ci impongo
di lasciare il soprabito fuori dalla porta. La questione dell’‘opacità’
dell’analista, vale a dire la capacità tenace di non lasciare trasparire che
poco o nulla dei propri vissuti interiori, è un articolo cardine della
costituzione analitica, che permette all’analista di restare tale, occupando
quella posizione, indipendentemente dal mutare dei tempi e dei costumi.
L’analista, e questo lo sanno davvero tutti coloro che sono addetti ai lavori,
affinché il dispositivo funzioni e non si tramuti in qualcosa d’altro, deve
saper mantenere questa posizione il più possibile decolorata, quel posto che
Lacan definisce dello ‘scarto’. In seduta, certo. Ma non solo. Viceversa, il
mostrare pubblicamente le proprie pulsioni, idee, vestendole del lessico
clinico, può sfociare in qualcosa che assomiglia ad un ‘giudizio diagnostico
extra moenia. E in un mondo mediatico dove se ti metti in posa sai che il tuo
messaggio verrà replicato all’infinito, è qualcosa che può turbare, scuotere,
colpire, pasticciare il lavoro in corso di tanti che si sono sentiti chiamati
in causa. Penso al lavoro analitico delle mummie masochiste che voteranno no.
Mi chiedo quale sarebbe la reazione dei miei analizzanti, del pd, o quelli di
sinistra, o di destra, se mi vedessero non già schierato, quanto ‘arruolato’
imbracciando la doppietta del dsm in uno dei palchi politici ai quali ho
partecipato. Apostrofando parte di essi come un ‘corpo unico’, definendoli in
base a questa o quella affezione dalla quale sarebbero interessati. (…)
L’uso del linguaggio analitico per definire, e mal
apostrofare, non un singolo, ma un’intera categoria di persone unite
esclusivamente dal loro orientamento referendario, è una brutta deriva. Usare
la diagnosi per stigmatizzare, categorizzare, delocalizzare tutto quello che
sfugge alla propria capacità di ordinare simbolicamente, risponde alla
necessità arcaica del dipingere il dissenziente come barbaro, malato, una sorta
di golem mummificato ed angosciante che cammina per strada terrorizzando la
tranquilla popolazione e premendo alle porte, come nella serie Wayward Pines. Taglio di bistecca con
mannaia; tre pezzi di carne: i vecchi mummificati, gli adolescenti perenni
abbagliati da grillo, e, finalmente, gli ‘eletti’ dotati di verbo, idee e
sognatori. E pazienza se sul sito dell’ordine degli psicologi trovo scritto
che: lo psicologo è consapevole della responsabilità sociale derivante dal
fatto che, nell’esercizio professionale, può intervenire significativamente
nella vita degli altri; pertanto deve prestare particolare attenzione ai
fattori personali, sociali, organizzativi, finanziari e politici, al fine di
evitare l’uso non appropriato della sua influenza.
Diceva quel tale ‘Le eresie devono pur esistere’, ed è
proprio questo il vero spirito laico dello psicoanalista. Aprire la porta ed
accogliere tutto ciò che è dissonante, incomprensibile. Quell’elemento di
sorpresa che distingue la clinica analitica da un processo di normalizzazione.
All’analista non frega nulla dell’ordine pubblico.
Ridiamo pure delle mummie ma, dietro al grottesco, si
nasconde il giudizio. Chi fa lo psicoanalista, lo sa. Essere masochista,
paranoico, fobico, schizofrenico, dissociato, non è una colpa. Sono strutture
che il soggetto si trova ad abitare, lui nonostante. La psicoanalisi non
giudica, accoglie. Ho ricevuto un insegnamento in questo campo, giacché tra
tanti maestri fallaci, qualche clinico rigoroso l’ho incontrato, seppur tardi.
L’insegnamento consiste in questo: quando parli di clinica, e fai il mestiere
dell’analista, usi il linguaggio al pieno delle sue potenzialità, gravido delle
sue implicazioni e devi essere pronto a sopportare le conseguenze di ciò che
dici. Il masochista non è secondo Lacan semplicemente colui il quale gode
soffrendo, bensì un deietto. Dunque un soggetto deresponsabilizzato.
L’accozzaglia del no sapeva di essere gruppo di burattini in cerca di padrone,
come Peter Sellers di ‘Oltre il giardino’? In realtà i mille no che io conosco,
il mio compreso, affondano radici in motivazioni ben coscienti e consapevoli.
Molti di loro semplicemente hanno pensato di dire no perché questa riforma è
fatta male. O perché non amano Renzi e la sua compagine. O perché hanno i loro
motivi.
Se usassimo il giudizio clinico fuori dallo studio,
stravolgendo come detto l’essenza stessa della psicoanalisi, la Leopolda
potrebbe apparire un luogo di obbedienza, dove si vota sì perché è ciò che ha
detto il capo. Potrei abusare delle nozioni diagnostiche riempiendomi la bocca
di parole come “forza della legge perversa”, alienazione e fedeltà. Potrei
addirittura scomodare la perversione. Il perverso in fondo non è che un uomo di
fede, un essere che cerca, edifica e venera un Dio al quale votarsi. Ma non
farei lo psicanalista. Ciò nonostante nessuno riuscirà mai a togliermi dalla
testa la convinzione che nel caso della nomina di Telemaco abbia agito una vera
lex perversa. Tramutato in Caino, fa fuori il fratello di partito e ne prende
il posto. Senza passare dalle urne, senza mai quell’incontro con il principio
di realtà chiamato voto. Come mummia continuo a sedermi su vecchie e solide
certezze: per cambiare la Carta Costituzionale, devi sapere cosa fai. Ma,
soprattutto, devi esser certo di rappresentare davvero l’intenzione popolare,
la maggioranza del paese, e questo, lo si voglia o meno, lo si ottiene
attraverso il voto. Diversamente ti atteggi a minoranza autoeletta ed
illuminata, che ti porta a redigere un quesito referendario nel quale mostri i
pregi di questa tua modifica, ma tieni i difetti nella stilografica.
Liquidare l’avversario perché indossa indumenti diagnostici,
significa adottare una micidiale prospettiva secondo la quale la protesta, il
dissenso, diventano ipso facto paranoiche, perché attentano alla verità del capo.
(…) Come nel film ‘Gattaca. La porta dell’universo’, come nelle parole di Philip
Dick: “Coloro che ti sono avversi, sono pazzi”. (…)
Per proteggere gli eletti dall’avanzare scomposto del
nemico, che avrà le sembianze vieppiù del persecutore, del perturbante, del
kakon. ‘La mummia’, ‘il vecchio’, ‘il conservatore’, ‘ il cattivo partigiano’,
passerella linguista degli orrori a significare che nell’altro qualcosa non
funziona, e dentro alla piramide c’è la salute e la tranquillità.
Nessuno in realtà li odia. Né tantomeno truppe cammellate
vogliono rubare loro i sogni. Sono loro ad avere un sogno che cercano di
imporre come buona pratica di vita urbi et orbi. Hanno un sogno, ma non
rappresentano null’altro che sé stessi. Staccati dall’elettorato, incuranti
della loro effettiva rappresentatività, paventano predoni onirici, quando non
si tratta che della gente, degli uomini del quotidiano. Quella stessa gente che
del referendum sa poco o nulla, malamente informata, e per nulla istruita. Il
33% degli Italiani ha appena sentito parlare delle questioni referendarie. Il
14% dichiara di non saperne nulla. E qua, la nuova compagine telemacoide
dimostra di aver del tutto abdicato all’erotica dell’insegnamento, quella cioè
di informare le masse, dando la giusta dose di conoscenza. (…)
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